video suggerito
video suggerito

Ora il Covid-19 è stato trovato anche negli animali selvatici: perché è un problema per l’uomo

Uno studio condotto in Virginia ha rilevato la presenza del SARS-Cov-2 in sei specie di animali selvatici e gli anticorpi del virus in altre cinque. Questo dato aumenta il rischio di nuove possibili mutazioni che potrebbero modificare anche il modo in cui il virus attacca gli uomini.
42 CONDIVISIONI
Un esemplare di Opossum (Didelphis virginiana)
Un esemplare di Opossum (Didelphis virginiana)

Quando il Covid-19 era ancora un'emergenza sanitaria generò un certo allarme la notizia di alcuni casi di contagio tra i gatti domestici, po il virus venne trovato anche il altri animali, come il cervo dalla coda bianca e il visone selvatico. Oggi un nuovo studio del Virginia Polytechnic Institute e della State University di Blacksburg, negli Stati Uniti, ha rintracciato il SARS-CoV-2 in più di dieci specie di animali selvatici. Un dato che conferma l'ampia diffusione del virus anche nella fauna selvatica, ovvero anche negli animali che non vivono a stretto contatto con l'uomo.

Lo studio, pubblicato su Nature Communications, sottolinea diversi punti interessanti. Oltre all'ampia diffusione del virus, i ricercatori hanno ipotizzato che molto probabilmente il passaggio di specie sia avvenuto per il contatto con l'uomo. Come abbiamo assistito negli ultimi per il virus dell'influenza aviaria, i salti di specie possono aumentare il rischio di nuove mutazioni che potrebbero far cambiare il virus. Qui abbiamo spiegatocom'è diventata una pandemia mondiale.

Lo studio sulla fauna selvatica

Gli ricercatori hanno testato 23 specie di animali selvatici comuni in Virginia, alla ricerca di infezioni attive o di anticorpi che confermassero quindi la presenza di infezioni precedenti. Hanno trovato tracce del SARS-CoV-2 in sei specie, mentre in altre cinque sono stati rilevati gli anticorpi specifici per il virus.

Nello specifico, segni del virus erano presenti nei topi cervini, negli opossum, nelle marmotte, nei procioni, nei conigli della specie silvago orientale e nei pipistrelli rossi orientali.

Da questo studio i ricercatori sono riusciti a stimare che nelle aree dove è maggiore la presenza umana il virus è presente tre volte di più che nelle altre regioni. La stretta corrispondenza con le varianti che circolano nell'uomo inoltre "suggerisce – spiegano gli studiosi – almeno sette eventi di trasmissione da uomo a animale avvenuti di recente".

Quali sono i rischi

Come abbiamo visto già con le varianti note del virus nell'uomo – per ultima la KP.3 – le mutazioni che le determinano possono modificare le caratteristiche specifiche del virus, sia a livello di sintomi che di trasmissibilità. Ecco perché i ricercatori sottolineano l'importanza di continuare a monitorare l'eventuale diffusione del virus in altre specie animali, perché "queste mutazioni potrebbero essere più dannose e trasmissibili", rendendo necessari quindi anche nuovi aggiornamenti dei vaccini.

Questo rischio è reale e già è emerso dallo studio nelle mutazioni rintracciate negli animali analizzati. Ad esempio, il virus isolato in un esemplare di opossum presentava mutazioni virali del tutto nuove e mai segnalate finora, quindi potenzialmente idonee a modificare il modo in cui il virus attacca gli esseri umani e sulla loro risposta immunitaria.

Perché serve più sorveglianza

Sebbene lo studio si sia concentrato nell'area della Virginia, molte delle specie risultate positive al Covid-19 sono comuni in tutto il Nord America. Questo dato, in aggiunta alle nostre conoscenze pregresse sulla presenza del virus in molti animai domestici, porta a pensare che "il virus sia in sostanza onnipresente".

Per questo motivo  – ha ribadito la prima autrice dello studio Amanda Golgberg – è ormai diventato necessario e urgente estendere la sorveglianza a un'area geografica molto più ampia di quello oggetto dello studio.

42 CONDIVISIONI
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views