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I vulcani nel Canale di Sicilia spiegati da chi li ha scoperti: “Possono essere un rischio, ma anche darci energia”

A Fanpage.it parla il professor Lodolo (Ogs), membro del team scientifico che è arrivato alla loro scoperta: “Abbiamo indizi della presenza di almeno un altro paio di vulcani che non siamo ancora riusciti a mappare”.
Intervista a Emanuele Lodolo
Geofisico e primo ricercatore dell’Istituto di Oceanografia e Geofisica Sperimentale (Ogs) di Trieste
A cura di Valeria Aiello
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Mappa batimetrica di uno dei vulcani sottomarini appena scoperti / Credit: M191 SUAVE
Mappa batimetrica di uno dei vulcani sottomarini appena scoperti / Credit: M191 SUAVE

Del nostro pianeta pensiamo di conoscere tutto, ma in realtà esistono tantissime aree inesplorate o esplorate solo parzialmente che, spesso, sono più vicine di quanto immaginiamo. È il caso dei tre nuovi grandi vulcani sottomarini appena scoperti nel Canale di Sicilia, gli ultimi di una serie di coni vulcanici recentemente identificati dall’Istituto di Oceanografia e Geofisica Sperimentale (Ogs) di Trieste nell’ambito di una spedizione scientifica internazionale, coordinata da GEOMAR Helmholtz Centre for Ocean Research Kiel (Germania) e proposta congiuntamente da Ogs e Università di Malta. Per capire come sia possibile che i nostri mari nascondano ancora formazioni così imponenti – i nuovi vulcani si elevano per oltre 150 metri sul fondo marino – e soprattutto quali siano i rischi legati alla loro presenza vicino alle coste, abbiamo parlato con il co-proponente del progetto di ricerca, il geofisico Emanuele Lodolo, primo ricercatore dell’Ogs e membro del gruppo scientifico che è arrivato alla loro scoperta.

Allora professore, come si scopre un vulcano? Per prima cosa, bisogna avere una nave che abbia le attrezzature adeguate per fare questo tipo di rilievi. In questa spedizione, come Ogs eravamo a bordo della nave tedesca METEOR, con i responsabili scientifici del progetto, Aaron Micallef dell’Università di Malta e Jorg Geldmacher della GEOMAR di Kiel, e abbiamo utilizzato un sistema di ecoscandaglio Multibeam che permette di ricostruire la morfologia del fondo marino, quindi produrre della mappe batimetriche molto dettagliate.

Se in queste mappe osserviamo rilievi con forme specifiche, procediamo a studi più dettagliati con altri strumenti, come il magnetometro, che è in grado di dirci se siamo in presenza di rocce di tipo calcareo o di tipo vulcanico, quindi di indicarci se siamo di fronte a un vulcano sottomarino. A ciò si aggiungono tutte le ricerche successive, che si concentrano sul prelievo di campioni, l’analisi delle rocce e la ricostruzione della storia geologica che ha prodotto questi vulcani sottomarini.

Il Canale di Sicilia visto dalla prua della nave da ricerca METEOR / Credit: OGS
Il Canale di Sicilia visto dalla prua della nave da ricerca METEOR / Credit: OGS

Cosa sappiamo di questi tre nuovi vulcani?

Sono abbastanza estesi, con dimensioni di circa 4-6 chilometri di larghezza e sono localizzati in un’area del Canale di Sicilia compresa tra l’isola di Linosa e le coste siciliane. Sappiamo anche che si elevano di circa 150 metri rispetto al fondale marino circostante, in un’area dove registriamo sia profondità rilevanti, di circa 600-700 metri, sia profondità di circa 100-150 metri. Quello più superficiale si trova a una quarantina di metri sotto il livello del mare.

Quanto sono vicini alla costa?
I più vicini alla costa sono quelli che si trovano nell’area marina compresa tra Mazara del Vallo e Sciacca, a sud della Sicilia, che abbiamo scoperto in una spedizione precedente con la nostra nave OGS Explora. Sono sei, di cui il più vicino è a 7 km dalla costa.

Come si sono formati?
Ci sono delle ipotesi, perché queste formazioni si trovano in un’area geologicamente attiva, dove circa 4-5 milioni di anni fa si è creato un sistema di grandi faglie che, tecnicamente, chiamiamo “rift”, legato a processi tettonici di tipo estensionale nella crosta continentale Nord-africana. Lungo queste faglie, la risalita di magma ha prodotto questi vulcani.

Si tratta di vulcani attivi o spenti?
Sono vulcani che per adesso non presentano fasi eruttive significative, anche se abbiamo osservato manifestazioni di tipo idrotermale, dunque di risalita di fluidi e gas in prossimità di questi apparati vulcanici.

Possono esplodere?
Una potenziale attività eruttiva futura non si può prevedere. C’è però da dire che, sempre nel Canale di Sicilia, nel 1831 si è verificata una grande eruzione vulcanica che ha prodotto l’isola Ferdinandea, che adesso non è più emersa, ma che lo è stata nel corso dell’eruzione, arrivando a un’altitudine di circa 60 metri sopra il livello del mare con una superficie di 4 km2. Essendo però formata da materiali poco consolidati, nel giro di sei mesi il moto ondoso l’ha smantellata progressivamente. Ne è rimasto solo il nucleo centrale, che adesso si trova a circa 6-7 metri sotto il livello del mare.

Questo per dirle che manifestazioni vulcaniche, anche esplosive, si sono verificate in tempi recenti – 190 anni sono nulla dal punto di vista geologico – , per cui non possono essere escluse.

In quest’area potrebbero esserci altri vulcani nascosti?
Probabilmente sì. Abbiamo alcuni indizi, geologici e geofisici, che ci portano a ritenere che ce ne siamo almeno un paio che non siamo ancora riusciti mappare nel dettaglio.

Com’è possibile che, con tutta la tecnologia di oggi, ci siano ancora vulcani nascosti così vicini alle nostre coste?
Il fatto che scopriamo solo oggi vulcani in un’area che è stata solcata per millenni da tutti i tipi di imbarcazione, dalle attività commerciali a quelle di pesca e militari, fa capire quanto ci sia ancora da scoprire e conoscere nei nostri mari.

Su questo, l’Italia deve investire, perché il fatto di avere vulcani anche vicini, con il primo che, come le dicevo, è a 7 km dalla costa, impone che la conoscenza delle aree marine venga fatta in maniera sistematica. Purtroppo, sotto questo punto di vista, siamo ancora deficitari, dal momento che buona parte dei nostri mari non è ancora coperta da mappe batimetriche ad alta risoluzione. Quindi è fondamentale che si investa per mappare il territorio e individuare le aree potenzialmente a rischio.

Alcuni membri del gruppo scientifico a bordo della nave da ricerca METEOR / Credit: OGS
Alcuni membri del gruppo scientifico a bordo della nave da ricerca METEOR / Credit: OGS

Perché? Quali pericoli possono rappresentare questi vulcani?
I rischi sono legati a potenziali manifestazioni esplosive, come nel caso di Ferdinandea nel 1831. Quindi, nell’ipotesi di un’eruzione, c’è ad esempio la possibilità di avere uno tsunami sulle coste, ma anche la caduta di ceneri e lapilli legata all’eruzione vulcanica.

Chiaramente sono eventi su cui non possiamo fare previsioni, ma sono comunque un qualcosa che non possiamo escludere. Per questo è importante innanzitutto individuare questi corpi vulcanici, per poi monitorarli. In Italia, siamo ancora nella fase della scoperta, quindi siamo ancora indietro nel processo di tutela del territorio.

Se guardassimo l’altro lato della medaglia?
Un’opportunità, per quanto non si tratti di vulcani di grandissime dimensioni, potrebbe essere rappresentata dal potenziale energetico. Ad esempio, nel Tirreno, c’è un grandissimo apparato vulcanico, il più grande d’Europa, il vulcano Marsili, anch’esso caratterizzato da manifestazioni idrotermali, dove sono in corso studi specifici per cercare di sfruttare la risalita di gas e fluidi caldi, provando a immagazzinarli e veicolarli per produrre energia. Esiste quindi anche questa possibilità legata alla questione energetica, che potrebbe contribuire al nostro fabbisogno.

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