Non tutti i disturbi del sonno hanno un impatto negativo sulla salute
La nostra salute passa anche da un buon sonno. Dormire bene ha infatti un forte impatto non solo sul benessere quotidiano ma, a lungo andare, influenza anche la nostra qualità di vita. Indicativamente, 7-8 ore di sonno sono ritenute sufficienti per svegliarsi riposati e attivi (qui la quantità minima di sonno per notte a seconda dell’età). Ma oltre alla durata del sonno, a giocare un ruolo di assoluto rilievo è anche la qualità del risposo notturno, che può essere compromessa dai sintomi dell’insonnia che possono manifestarsi appena ci si corica (insonnia iniziale) oppure con risvegli durante la notte (insonnia centrale) e difficoltà a riaddormentarsi (insonnia da mantenimento del sonno). Ciò che non era ancora noto che è questi disturbi del sonno non incidono tutti alla stessa maniera sulla nostra salute.
Lo rileva un nuovo studio sull’American Journal of Preventive Medicine che, in relazione al rischio di sviluppare demenza, ha rilevato che le persone con difficoltà a riaddormentarsi dopo il risveglio hanno un minor rischio di deterioramento cognitivo. “Ci aspettavamo che l’insonnia iniziale e l’uso di farmaci per il sonno aumentassero il rischio di demenza, ma siamo rimasti sorpresi nello scoprire che l’insonnia da mantenimento del sonno ha ridotto il rischio di demenza” ha spiegato Roger Wong, assistente professore presso il Dipartimento di Sanità pubblica e medicina preventiva della State University of New York Upstate Medical University, negli Stati Uniti, e autore principale dello studio.
Insieme ai colleghi, il professor Wong ha esaminato in che modo i disturbi del sonno a lungo termine siano associati al rischio di demenza sulla base dei dati prospettici del National Health and Aging Trends Study (NHATS), uno studio longitudinale che raccoglie informazioni su un campione rappresentativo a livello nazionale di beneficiari di un’assicurazione medica (Medicare) negli Stati Uniti. Precedenti ricerche hanno associato il comportamento del sonno REM, la privazione del sonno (meno di cinque ore di riposo notturno) e l’uso di benzodiazepine a breve durata d’azione con il declino cognitivo, ma gli effetti dell’insonnia da mantenimento del sonno erano stati osservati solo in studi separati e più piccoli.
Per la loro analisi, i ricercatori hanno utilizzato dieci set annuali (2011-2020) di dati, includendo solo le persone che nel 2011 erano libere da demenza al basale, per un totale di 6.284 adulti di età pari o superiore ai 65 anni. La correlazione più grave è emersa per l’insonnia da inizio del sonno: coloro che l’hanno segnalata avevano un rischio di demenza più alto del 51% quando non si è tenuto conto dei fattori sociodemografici e sanitari. Per quanto riguarda i sonniferi, l’analisi ha mostrato un aumento del 30% del rischio di demenza (dopo gli aggiustamenti sociodemografici e prima di quelli per fattori sanitari). D’altra parte, l’insonnia da mantenimento del sonno è risultata associata a una riduzione del 40% del rischio di demenza (considerando sia le variabili sociodemografiche sia i fattori sanitari).
Nel complesso, osservano gli studiosi, i risultati suggeriscono l’importanza della valutazione dei diversi disturbi del sonno in relazione al rischio di demenza, sebbene siano necessarie nuove ricerche per esplorare i meccanismi di riduzione in relazione all’insonnia da mantenimento. “Concentrandosi sulle variazioni dei disturbi del sonno – ha aggiunto la co-autrice Margaret Anne Lovier del Dipartimento di sanità pubblica e medicina preventiva della State University of New York Upstate Medical University – si potranno quindi intraprendere percorsi che favoriscano cambiamenti dello stile di vita e vadano a ridurre il rischio di demenza”.