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Mozzarella di bufala campana DOP, l’analisi del DNA rivela cosa la rende così speciale

L’indagine condotta da un team di ricerca italiano sulla mozzarella di bufala DOP prodotta in due caseifici della Campania svela qual è il segreto della sua unicità.
A cura di Valeria Aiello
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La mozzarella di bufala campana DOP, il formaggio fresco a pasta filata che il mondo ci invidia, sembra non avere più segreti: la chiave della sua bontà risiede in un profilo microbico unico, conferito dalla lavorazione e dalle materie prime impiegate nel processo di produzione.

Protetta dalla legislazione dell’Unione Europea da quasi 30 anni, la mozzarella di bufala campana DOP è prodotta esclusivamente con latte intero fresco di bufala di razza mediterranea italiana proveniente da allevamenti dell’area di origine secondo una ricetta specifica: la caseificazione inizia con il latte (crudo o pastorizzato) che viene portato a una temperatura di circa 35-37 °C e successivamente inoculato con caglio e siero-innesto naturale. Si avvia così la fase di maturazione della cagliata (dalle 4 alle 4 ore e mezzo a 35-37 °C) e solo quando si raggiunge il pH ottimale di 4,8-4,9, la cagliata matura, sotto l’acqua bollente (90-95 °C), diventa abbastanza elastica da poter essere filata e modellata nella tipica forma tonda, che viene poi rassodata in acqua dolce, quindi salata in salamoia.

Piccole variazioni in questa procedura fanno la differenza tra i prodotti dei diversi caseifici, finiti sotto la lente di un team di ricerca italiano che ha voluto fare luce su cosa esattamente rende la mozzarella di bufala campana DOP così gustosa. Guidati da Alessia Levante, ricercatrice post-dottorato del Dipartimento di Scienze degli Alimenti e del Farmaco dell’Università di Parma, gli studiosi hanno selezionato due caseifici campani che producono mozzarella di bufala che si qualifica per il marchio DOP: uno più grande e con una tecnologia più moderna e uno più piccolo e con più processi tradizionali. Hanno quindi prelevato campioni di latte, siero-innesto naturale, cagliata prima della filatura, salamoia e mozzarella per studiare i microrganismi presenti in ogni fase del processo di produzione.

La mozzarella di bufala campana DOP: il segreto è nel siero naturale

L’analisi, pubblicata nel dettaglio sulla rivista Frontiers in Microbiology, si è basata su un metodo molecolare chiamato sequenziamento del gene 16S rRNA, un esame che analizza frammenti (ampliconi) di un gene batterico, chiamato appunto rRNA 16S, e fornisce come risultato il nome di tutti i batteri presenti nel campione e la loro abbondanza. L’analisi, in particolare, si svolge sequenziando il DNA dei campioni e amplificando alcune specifiche regioni del gene, che servono a identificare le specie microbiche presenti e le proporzioni in cui appaiono.

L’indagine ha indicato che il latte di bufala pastorizzato che veniva utilizzato dal caseificio moderno aggiungeva meno microbi e specie batteriche di quello sottoposto a un trattamento termico più blando (termizzazione) adottato dal caseificio più tradizionale, ma che le salamoie di entrambi erano ugualmente ricche di specie microbiche, sebbene non tutte fossero presenti nel formaggio stesso. (Sia la termizzazione che la pastorizzazione implicano l’uso del calore per eliminare una certa percentuale di germi, ma la prima utilizza temperature più basse da 57 a 68 °C per pochi secondi, rispetto ad almeno 71,7 °C per 15 secondi della seconda).

Ciò che è però risultato particolarmente interessante è che, durante il processo di cagliatura, solo un piccolo numero di specie si sviluppa e prende il sopravvento, nonostante i sieri di avviamento naturale impiegati dai due caseifici avessero abbondanze diverse di microbi dei generi Lactobacillus e Streptococcus.

In particolare, il siero del caseificio più tradizionale aveva all’incirca la stessa abbondanza di entrambi, mentre il caseificio più moderno utilizzava un siero dominato dallo Streptococcus. Tuttavia, dopo la cagliatura, la quantità di Lactobacillus è aumentata mentre quella di Streptococcus è diminuita nei campioni di mozzarella di entrambi i caseifici, probabilmente perché i batteri non erano più esposti allo stress termico che accompagnava il processo di filatura, hanno affermato gli autori dello studio.

Nonostante il gran numero di specie di microbi disponibili nel latte e nella salamoia, sembra che la composizione microbica della mozzarella sia maggiormente influenzata dal siero-innesto naturale” spiegano gli studiosi che, alla luce di questi risultati, stanno ora progettando un’analisi più ampia per saperne di più su come il latte di bufala crudo definisca i batteri nella mozzarella risultante.

“Stiamo pianificando un progetto più ampio per indagare più a fondo il ruolo del latte di bufala crudo nella definizione del microbiota – ha affermato Levante – . L’ambito di questo studio era limitato a due caseifici e a una specifica dimensione del campione. Per fornire informazioni più complete sulle complessità microbiche della produzione alimentare tradizionale, la ricerca futura mira a comprendere un numero maggiore di produttori e giorni di produzione”.

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