L’R0 di Omicron potrebbe essere 10: cosa significa per l’alta trasmissibilità della variante
Il rischio associato alla variante Omicron del coronavirus è classificato come “molto alto” dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Nella settimana terminata il 12 dicembre, l’Africa ha registrato 196.000 casi di Covid, con un aumento dell’86% rispetto alla settimana precedente. Contagi in forte aumento anche in Sudafrica, dove la nuova variante è stata inizialmente rilevata, come pure negli Stati Uniti e nel Regno Unito, dove Omicron è da giorni la forma virale dominante. Nelle ultime 24 ore i contagi hanno superato quota 100mila nel Regno Unito, uno su dieci da Omicron, portando gli scienziati del Sage a ritenere che “molto presto” saranno necessarie restrizioni più severe.
Il timore è che l’aumento dei casi possa portare alla saturazione degli ospedali, anche se molto dipenderà dalla portata e dalla gravità delle infezioni associate alla nuova variante. Per ora, i dati del sequenziamento hanno rivelato più di 30 mutazioni a livello della proteina Spike su cui sono basati i vaccini Covid, e dai dati sugli anticorpi neutralizzanti è emerso che Omicron ha una resistenza parziale ma non completa a un’immunità preesistente. A colpire i ricercatori, in particolare, la velocità con cui il virus ha mostrato potersi moltiplicare nelle cellule delle vie aeree superiori, il che potrebbe spiegare la maggiore contagiosità.
In termini di trasmissibilità, il ceppo originario di Sars-Cov-2 aveva un indice di replicazione R0 di 2,5, mentre la variante Delta di poco inferiore a 7. La variante Omicron potrebbe arrivare ad avere un indice R0 di 10, secondo la stima dell’infettivologo inglese Martin Hibberd della London School of Hygiene & Tropical Medicine. In altre parole, un caso con infezione da Omicron ha la possibilità di infettare altre 10 persone, essendo R0 il valore che indica il rapporto tra contagianti e contagianti che hanno diffuso l’infezione in una popolazione naïve al patogeno.
Nel Paese britannico i casi di Omicron raddoppiano ogni 2-3 giorni, complicando anche gli sforzi di tracciamento dei contatti. “Il tracciamento funziona bene quando trascorre circa una settimana tra un’infezione e l’altra – ha spiegato Hibberd a The Lancet Respiratory Medicine – . Ma è quasi impossibile farlo funzionare se hai solo 2 o 3 giorni tra un’infezione e l’altra. Potremmo dover fare affidamento su altre misure, come i test giornalieri”.