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L’organizzazione della città in cui vivi potrebbe renderti razzista: lo studio

Una ricerca condotta negli Stati Uniti ha rivelato come le persone siano portate a essere più o meno inconsciamente prevenute nei confronti delle comunità straniere in base ad alcune caratteristiche strutturali della città in cui vivono.
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Non tutto quello che pensiamo è il risultato della nostra volontà. O meglio, esistono alcuni schemi mentali inconsci che facciamo nostri crescendo e che spesso guidano in modo automatico i nostri pensieri. Si chiamano "unconscious bias" e spesso sono tra le principali cause di atteggiamenti razzisti e discriminatori. Ecco perché scoprire il meccanismo attraverso cui li assimiliamo è fondamentale per ridurre questi fenomeni.

Certo questi "pregiudizi inconsci" sono il risultato del contesto in cui cresciamo, ma a determinarli potrebbe essere perfino l'organizzazione della città in cui viviamo. Lo ha rivelato una nuova ricerca condotta dal Santa Fe Institute, un ente di ricerca no-profit specializzato nella Scienza dei Sistemi Complessi, e dall'Università di Chicago sulle città statunitensi: secondo lo studio le caratteristiche di una città potrebbero rendere le persone che ci vivono più o meno propensi ad essere razzisti. Quindi agire sui fattori strutturali di una città – spiegano gli autori – potrebbe essere determinante nel ridurre la discriminazione razziale e le disparità che ne derivano.

Come la tua città può renderti razzista

Secondo i risultati dello studio, i fattori di una città che hanno maggior peso nel rendere i suoi cittadini più o meno inconsciamente razzisti sono tre: quanto è popolosa, quanto è diversificata e quanto è segregata, ovvero quanto una città è strutturata per "zone rigide" che non favoriscono le interazioni sociali tra gruppi di provenienza geografica diversa.

Per vedere come i pregiudizi razziali emergono dall'organizzazione del

le città statunitensi, gli autori della ricerca hanno utilizzato i dati contenuti nell'enorme database dell'Implicit Association Test (IAT). Si tratta di un test utilizzato a livello internazionale per valutare le "associazioni implicite" di un individuo a partire da alcuni elementi significativi nella percezione delle persone, come il colore della pelle o il genere sessuale di appartenenza.

I risultati dello studio

I ricercatori hanno preso i punteggi medi dei pregiudizi IAT di circa 2,7 milioni di individui in diverse aree geografiche degli Stati Uniti e li hanno collegati ai dati demografici razziali e alla popolazione degli Stati Uniti per costruire un modello che tenga conto di come gli individui assimilino i pregiudizi attraverso le reti sociali della città in cui vivono.

Da questa modello è emerso che nelle persone che vivono in città con reti sociali sono più ampie, più diversificate e meno segregate i pregiudizi razziali impliciti diminuiscono. Questo significa che esistono delle ragioni strutturali per cui una determinata città è più o meno razzista.

Dei tre fattori chiave, il più determinate è però il livello di segregazione dei diversi "gruppi razziali" in quartieri diversi della città. In una città organizzata in questo modo – quindi con quartieri fortemente distinti in base all'origine dei residenti – non ci sono sufficienti spazi pubblici di incontro tra i diversi gruppi e questo riduce, e molto spesso annulla, le interazioni sociali tra le persone.

Costruire città più cosmopolite

Ci sarebbe quindi uno stretto rapporto tra il profilo urbano di una città e il suo livello di giustizia sociale e parità:

"Nelle città in cui le persone non possono incontrare e interagire con persone e istituzioni utilizzate da altri gruppi, i pregiudizi razziali creano grandi barriere all'equità. Queste barriere sono associate a disparità in tutti gli aspetti della vita, tra cui l'assistenza medica, l'istruzione, l'occupazione, la polizia, i risultati della salute mentale e la salute fisica, spiegano gli autori".

Anche se si riferisce alla situazione nelle città degli Stati Uniti, questo studio potrebbe essere utile a spiegare anche i fenomeni di razzismo in Italia, sebbene in questo caso ci siano altri fattori diversi. Rispetto altre città europee, infatti, le città italiane – e nello specifico Milano – costituiscono un modello a sé: secondo un recente ricerca dell’Università Bicocca e dell’Ats di Milano, che ha analizzato la distribuzione residenziale dei 300.000 stranieri che vivono a Milano, ovvero il 21,3% della popolazione, esiste un fenomeno di ghettizzazione. Ma questo non si sviluppa in base alla provenienza geografica, bensì al reddito, con il centro riservato praticamente solo alle classi alte o medio-alte a livello socio-economico e completamente escluso al resto della popolazione.

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