L’isola di plastica nel Pacifico è ormai talmente grande e persistente che ospita animali costieri
Sulla gigantesca isola di plastica galleggiante presente nell'Oceano Pacifico – conosciuta come Great Pacific Garbage Patch – gli scienziati hanno trovato una florida comunità di specie costiere, che vive, si riproduce e interagisce con gli organismi dell'alto mare in un modo che non si riteneva possibile. Viaggiando sui detriti di plastica prodotti dall'incuria e dall'inciviltà umana, le specie che vivono normalmente lungo le coste hanno letteralmente fondato un nuovo ecosistema, laddove si riteneva impossibile potessero sopravvivere. È l'ennesimo segnale di quanto grave e pervasivo sia l'impatto dell'Antropocene, l'epoca geologica dominata dall'uomo e dai suoi effetti devastanti sugli equilibri ecologici.
A studiare la comunità “aliena” di specie costiere nel cuore della Great Pacific Garbage Patch è stato un team di ricerca internazionale guidato da scienziati della Smithsonian Environmental Research Center di Edgewater, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi dell'Institute of Ocean Sciences, Fisheries & Oceans (Canada), dell'Applied Physics Laboratory dell'Università di Washington del North Carolina Museum of Natural Sciences e di altri istituti. I ricercatori, coordinati dalla dottoressa Linsey Haram, un'ecologa marina che oggi lavora presso il National Institute of Food and Agriculture, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver raccolto e analizzato oltre cento campioni dalla famigerata isola di plastica del Pacifico – la più grande del mondo – tra il 2018 e il 2019.
Dalle analisi condotte sui detriti plastici – come bottiglie, attrezzatura da pesca e altra spazzatura – hanno identificato circa 500 organismi marini diversi appartenenti a 46 specie, delle quali l'80 percento vive normalmente lungo le coste. Dei 37 taxa (gruppi tassonomici) di invertebrati costieri identificati, nella maggior parte si trattava di specie dell'Oceano Pacifico occidentale. La professoressa Haram e i colleghi hanno determinato che gli animali costieri erano più abbondanti di ben tre volte rispetto a quelli pelagici – cioè che vivono in mare aperto – sui campioni del Pacific trash vortex, che in base alle stime si estende per ben 1,4 milioni di chilometri quadrati, ben cinque volte l'estensione dell'Italia. Questi organismi, che comprendevano anemoni, briozoi e crostacei, sono stati trovati su oltre il 70 percento dei campioni raccolti. In pratica 3 detriti su 4 erano colonizzati. Diverse specie costiere sono finite nell'oceano aperto anche dopo il terribile terremoto-tsunami del 2011 che ha colpito il Giappone; molte furono ritrovate persino alle Hawaii e lungo la costa nordamericana.
“La maggior parte dei taxa costieri possedeva uno sviluppo diretto o una riproduzione asessuata, forse facilitando la persistenza a lungo termine sulle zattere (di plastica NDR). I nostri risultati suggeriscono che la mancanza storica di substrato disponibile ha limitato la colonizzazione dell'oceano aperto da parte di specie costiere, piuttosto che vincoli fisiologici o ecologici come ipotizzato in precedenza”, hanno scritto gli scienziati nell'abstract dello studio. Su alcuni detriti erano presenti sia specie pelagiche che costiere, che erano in competizione fra di esse; in alcuni casi erano coinvolte anche in processi di predazione. Un nuovo ecosistema, in pratica.
“C'è probabilmente competizione per lo spazio, perché lo spazio è prezioso in mare aperto, c'è probabilmente concorrenza per le risorse alimentari, ma potrebbero anche mangiarsi a vicenda. È difficile sapere esattamente cosa sta succedendo, ma abbiamo visto prove di alcuni degli anemoni costieri che mangiano specie oceaniche aperte, quindi sappiamo che c'è qualche predazione in corso tra le due comunità”, ha dichiarato alla CNN la dottoressa Haram. Studi più approfonditi aiuteranno a comprendere meglio queste dinamiche, che mettono di fronte due comunità diverse. I dettagli della ricerca “Extent and reproduction of coastal species on plastic debris in the North Pacific Subtropical Gyre” sono stati pubblicati sull'autorevole rivista scientifica Nature Ecology & Evolution.