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Cambiamenti climatici

L’alluvione di Valencia dimostra che siamo bloccati in una cecità climatica

La pioggia che ha travolto la Spagna nelle ultime ore è solo l’ultima conferma di un dato: stiamo vivendo la fine della normalità climatica e ancora non ce ne rendiamo conto. Il problema lo conosciamo, le soluzioni anche. Bisogna attuarle.
A cura di Fabio Deotto
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C’è un’immagine che mostra bene la discrepanza tra la gravità dell’emergenza climatica che stiamo attraversando e gli strumenti che abbiamo a disposizione per comunicarla, ed è quella del primo ministro spagnolo Pedro Sanchez che nel pomeriggio di oggi, mentre la violenta perturbazione si spostava in altri punti della penisola iberica, si è presentato davanti ai microfoni e alle telecamere per informare la cittadinanza di quanto sta accadendo. La compostezza istituzionale, il pulpito e le bandiere, i discorsi sulla solidarietà e la ricostruzione, l’appello a non abbassare la guardia: sono immagini che abbiamo visto tante altre volte, sovrapponibili a quelle che hanno contrassegnato tante altre catastrofi.

A vederle senza conoscere la gravità della situazione, verrebbe da pensare a una circostanza tutto sommato ordinaria, uno dei tanti disastri che comunemente punteggiano la storia di una nazione. Ma basta vedere le foto che ritraggono la Comunità Valenciana obliterata da un oceano marrognolo, o quelle in cui decine di auto sono ammassate a formare montagnole di lamiera tra i palazzi, per rendersi conto che quanto sta accadendo in Spagna non ha nulla di normale.

Il passaggio dalla normalità alla tragedia è avvenuto nell’arco di poche ore: quella che lunedì poteva essere scambiata per una normale pioggia intensa, nella giornata di martedì ha fatto un salto di qualità, rovesciando in poche ore la pioggia di un anno. In alcune città le strade si sono trasformate in fiumi in piena, incalzati da venti che raggiungevano anche i 130 km/h, chi ha provato a rifugiarsi sugli alberi o sui tetti delle auto è stato travolto da ondate di fango, nelle fasi più violente della tormenta le auto venivano sbattute da una parte all’altra come macchinine giocattolo sotto il getto di un innaffiatore. Mentre scrivo queste parole le autorità hanno confermato la morte di 72 persone e si calcolano migliaia di sfollati.

I pezzi del mosaico climatico

Parliamo di una delle alluvioni più tremende che non solo la Spagna, ma l’intera Europa abbia mai visto, eppure, considerando la situazione climatica in cui il nostro continente si trova, parlare di evento eccezionale potrebbe risultare improprio. Se infatti affianchiamo le immagini che arrivano dalla Comunità Valenciana e Castiglia-La Mancia a quelle che negli ultimi mesi abbiamo osservato in Emilia Romagna, in Croazia, in Polonia, in Austria e in Repubblica Ceca, cominciamo a intravedere come tutti questi pezzi del mosaico climatico europeo, sebbene possano apparirci isolati, appartengano in realtà alla stessa cornice.

Nonostante siano decenni che i climatologi lo annunciano, la fine della normalità climatica, in Europa come altrove, ci sta cogliendo impreparati. Il che è curioso, considerando che il nesso tra alluvioni e crisi climatica è piuttosto facile da tracciare: un aumento delle temperature globali si traduce in un maggiore evaporazione dell’acqua, sia in mare che sulla terraferma, inoltre l’aria più calda è in grado di trattenere una quantità maggiore di umidità (il 7% in più per ogni grado centigrado), inoltre il rallentamento della corrente a getto (anch’esso imputabile al riscaldamento globale) può far sì che la perturbazione rimanga più a lungo in una determinata area.

Non più di un mese fa, la World Weather Attribution ha pubblicato uno studio che mostra come il cambiamento climatico abbia già raddoppiato la probabilità che si presentino perturbazioni come quella che ha flagellato diverse regioni europee a metà settembre (Boris), e le abbia rese in media del 10% più intense. Questo significa che anche se disastri come quello a cui stiamo assistendo nella Spagna sud-orientale sono ancora considerabili eccezionali, lo sono (e lo saranno) sempre di meno. Ed è qui che il disorientamento diventa più palpabile: la crisi climatica sta cancellando sia il nostro concetto di normalità che quello di eccezionalità.

Le catastrofi che segnano il nostro limite cognitivo

Guardando le terribili immagini che continuano ad arrivare dalla Spagna, dove le campagne sembrano assediate da un blob fangoso dotato di vita propria, mi torna alla mente L’Età del fuoco di John Vaillant, in cui l’autore canadese racconta l’apocalittico incendio che ha devastato la città di Fort McMurray nel 2016. Vaillant descrive l’incendio come un mostro mitologico determinato a procurare la maggiore distruzione possibile , una bestia fatta di fiamme capace di incendiare intere case in pochi secondi, di abbattere alberi col solo spostamento d’aria, di lanciare propaggini a decine di metri di distanza, superando fiumi e linee tagliafuoco come fossero piste per le biglie.

Di fronte a una catastrofe di proporzioni simili ci sentiamo del tutto impotenti, e proviamo a riportarla nei ranghi della nostra normalità rendendola più simile a ciò che conosciamo, un espediente trovare una misura all’incommensurabile. Ed è proprio questo il punto: incendi come Fort McMurray e alluvioni come quella spagnola non appartengono al novero di ciò che conosciamo. Sembrano arrivare da un altro mondo, e finché non le vediamo verificarsi ci risulta difficile, se non impossibile, immaginarle.

Per spiegare questo limite cognitivo, Vaillant ricorre al principio di Lucrezio, secondo il quale l’essere umano tende a «credere che la montagna più alta che conosce sia la più alta del mondo.» Il problema non è tanto che non crediamo alla crisi climatica, ma che non riusciamo a immaginarne la reale portata. Per questo, di fronte a quanto sta accadendo in Spagna, ci viene così semplice cavare di tasca parole locuzioni come “alluvione straordinaria” e “apocalisse senza precedenti”: ci tranquillizza di più pensare che immagini come quelle appartengano al novero dell’improbabile, piuttosto che a una nuova normalità.

Il futuro che ci aspetta e il problema che conosciamo

Soltanto qualche giorno fa è stato pubblicato l’Emissions Gap Report 2024 delle Nazioni Unite, il rapporto annuale che calcola che tipo di impegno dovremmo aspettarci dalle varie nazioni per ottenere un’efficace riduzione delle emissioni. Stando al documento, se i trend attuali non cambiano drasticamente, siamo diretti verso un futuro in cui le temperature aumenteranno fino a 3,1 gradi al di sopra dei livelli pre-industriali; vale a dire un futuro in cui eventi estremi come quelli delle ultime settimane saranno esponenzialmente più intensi e frequenti.

Il prossimo 11 novembre, a Baku in Azerbajan, rappresentanti di tutto il mondo riuniranno per la COP29, il tavolo nazionale più importante per trovare una soluzione congiunta alla crisi climatica. Per dieci giorni, i ministri di 197 nazioni (compresa l’Italia, la Spagna e tutte quelle che hanno subito alluvioni letali quest’anno) saranno chiamate a prendere misure drastiche per contrastare la più grande minaccia esistenziale nella storia dell’umanità. Fino ad oggi, le barriere che frammentano lo scacchiere internazionale hanno impedito svolte davvero promettenti, e dubito che la collezione di disastri senza precedenti che punteggia il mondo basterà a innescare il cambio di paradigma di cui abbiamo bisogno. Ma non possiamo permetterci di non tentare.

Il problema lo conosciamo, le soluzioni anche, e se troveremo la volontà politica di attuarle (e di scontentare chi più a da perderci in questa transizione) potremo sperare di arginare catastrofi di questo calibro entro la soglia della vivibilità. In alternativa, incroceremo le braccia e proseguire nella direzione di sempre, preparandoci a prendere atto di una nuova normalità fatta di alluvioni, incendi e carestie ancora inimmaginabili, come nel più normale degli annunci alla cittadinanza.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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