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Opinioni
Cambiamenti climatici

Il turismo come lo conosciamo ha i giorni contati, si spera

Il 5 luglio del 1841 Thomas Cooke ha organizzato viaggio di gruppo da Leicester a Loughborough a cui presero parte 600 persone. Forse è la prima testimonianza di turismo di massa che abbiamo, un fenomeno che nei prossimi anni è destinato a cambiare, come ci dicono tanti segnali che stiamo vedendo. La protesta dei turisti a Barcellona contro l’overturism segna una delle crepe più evidenti di un modello che non sta più funzionando.
A cura di Fabio Deotto
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Fare previsioni per il futuro è sempre un esercizio mentale azzardato, perché qualunque tipo di pronostico possiamo fare tenderà inevitabilmente a poggiare su ciò che già conosciamo del presente e sulle dinamiche che abbiamo visto dipanarsi nel passato. C'è però una previsione che mi sento di poter fare senza troppa paura di mancare il bersaglio, ed è che di qui ai prossimi anni (decenni al massimo) il turismo come lo conosciamo non esisterà più. La ragione principale è che la crisi climatica lo sta rendendo non solo meno sostenibile, ma anche, come vedremo, sempre meno appetibile. C'è però un'altra ragione, che ha a che fare con la saturazione di un modello di business che, come tante altre cose, pensavamo eterno.

Non siamo sempre stati turisti

L'idea che il turismo nella sua accezione odierna sia destinato a scomparire non dovrebbe stupirci più di tanto, se consideriamo che fino a meno di 200 anni fa il concetto stesso di turismo non aveva alcun senso. Prima del XVIII secolo gli unici a intraprendere viaggi oltre confine erano i pellegrini e gli esploratori: persone che si spostavano verso specifiche mete con altrettanto specifici fini, che spesso e volentieri non contemplavano né svago né relax. Un'eccezione valeva per i figli delle famiglie aristocratiche europee, che già nel ‘700 intraprendevano lunghi viaggi in mete del Mediterraneo (i cosiddetti Grand Tour). Sostanzialmente si trattava di periodi di full-immersion in ambienti e società diverse (l'Italia era la meta più gettonata), il cui scopo era dichiaratamente didattico e culturale.

Il turismo nella sua accezione odierna è talmente recente da avere una data d'inizio precisa: il 5 luglio del 1841, quando Thomas Cooke organizzò un viaggio in treno da Leicester a Loughborough a cui presero parte 600 persone. Da allora, i viaggi organizzati diventarono una vera e propria mania, dando vita a un settore che non ha mai smesso di crescere. Sarebbe però un errore però pensare che a livello globale il turismo sia la norma. A ben vedere, infatti, la stragrande maggioranza di chi oggi vive su questo pianeta (6,7 miliardi su 8) non esce mai dai confini del proprio Paese per diletto. Fino a meno di 80 anni fa (il 1947), la parola turismo non era mai stata utilizzata in un documento ufficiale e ancora oggi in alcune lingue questo termine nemmeno esiste.

Se oggi, diamo per scontato che il turismo sia una colonna portante della vita delle persone, oltre all'angolazione inevitabilmente occidentale del nostro sguardo, è anche perché nel corso del ‘900 questo settore è cresciuto senza sosta, una curva che si è ulteriormente impennata a partire dal boom economico degli anni '50 e '60, quando una fascia sempre più ampia della popolazione ha cominciato ad avere a disposizione tempo e denaro per viaggiare. Ma sebbene il settore continui a crescere, e a fare investimenti che scommettono su una continua salita della curva, il mondo non è più quello di settant'anni fa e nemmeno quello di trent'anni fa, a dirla tutta.

La crisi climatica è una sciagura per il turismo (e viceversa)

Nell'estate del 2023, una delle più climaticamente devastanti di sempre, il comune di Atene ha deciso di chiudere l'Acropoli per via delle temperature eccessive. Il giorno prima, le frotte di turisti che erano saliti al Partenone si sono ritrovati a cuocere a temperature che sfioravano i 48 gradi: degli 11.000 visitatori, alcuni sono svenuti e sono stati portati via dalla Croce Rossa, gli altri sono stati riaccompagnati ai loro alloggi. Il giorno dopo l'Acropoli era chiusa. Non era mai successo prima.

Quello che ho appena raccontato sembra un evento straordinario, e in un certo senso lo è, ma a giudicare dalla quantità di eventi simili che stanno costellando le nostre estati, è il caso di cominciare ad abituarci all'idea che una meta turistica possa non essere raggiungibile o percorribile; come è il caso di abituarci al fatto che gli aerei possano non riuscire a sollevarsi da terra per colpa del caldo eccessivo; o che le spiagge si riducano a vista d'occhio, diventando sempre più vulnerabili a ondate di marea e uragani.

La crisi climatica come sappiamo, ha ricadute trasversali su ogni aspetto della nostra vita, e il turismo è uno dei primi settori a mostrarne i segni. Nonostante l'inerzia che caratterizza un settore che non si è mai veramente preoccupato di diventare sostenibile, qualcosa sta inevitabilmente cambiando: le mete più fresche e temperate negli ultimi anni stanno registrando un boom senza precedenti. Vale per i luoghi più elevati, naturalmente, ma anche per le nazioni artiche. In Italia, il braccio di ferro tra mare e montagna non è mai stato così bilanciato, e stando alle previsioni presto il numero di persone che sceglierà le vette al posto delle spiagge diventerà maggioranza. Il bilancio generale però volge al rosso: se le temperature continuano ad aumentare, nel futuro prossimo il settore turistico italiano è destinato a contrarsi fino al 15%, con perdite che rischiano di superare i 50 miliardi di euro.

Attenzione, però: nel contesto dell'emergenza climatica il turismo non è solo vittima, è anche carnefice. Oltre ad essere responsabile dell'8% delle emissioni di gas serra globali, il turismo di massa ha pesanti ricadute anche sugli ecosistemi: il continuo flusso di visitatori, l'inquinamento da essi prodotto e gli interventi infrastrutturali necessari ad accoglierli, vanno a interferire con funzioni ecologiche essenziali come la formazione del suolo e l'assorbimento di gas serra, riducono la produttività degli ecosistemi e dunque i servizi naturali che essi forniscono, provocano perdita di biodiversità e compromettono quegli equilibri che garantiscono resilienza di fronte agli eventi estremi esacerbati dall'emergenza climatica.
Qualunque località si avvii a diventare una meta turistica va inevitabilmente incontro a una serie di trasformazioni profonde, che spesso finiscono per neutralizzare ciò che aveva reso quel luogo così appetibile.

Meno turismo, più vita

Nella mattina di giovedì, un gruppo di attivisti di Letzte Generation ("ultima generazione" in tedesco) ha invaso le piste dell'aeroporto di Francoforte, il più trafficato di tutta la Germania, creando enormi disagi per le migliaia di turisti. La protesta si concentrava sulla richiesta di interrompere i finanziamenti all'industria fossile e avviare una transizione climatica immediata, ma la scelta dell'aeroporto non è stata casuale: il settore turistico è uno dei più impattanti, come abbiamo detto, ma anche uno dei più ciechi all'emergenza che stiamo vivendo. Andiamo in vacanza anche per dimenticarci delle brutture del mondo, per concederci una tregua dall'assedio di brutte notizie e cupi presagi che scandisce la nostra quotidianità il resto dell'anno: l'idea che questa fuga dalla realtà ci venga impedita è inaccettabile e infatti quella particolare protesta ha attirato ancor più polemiche del solito.

Ma, come spesso accade, gli attivisti stanno ragionando in prospettiva: se proviamo a osservare quello che sta succedendo ponendoci da un punto di osservazione futuro in cui le temperature globali hanno già sfondato quota 2 gradi e le estati sono diventate degli inferni ancora meno vivibili, le persone che corrono sulle piste di decollo reggendo cartelli arancioni ci sembreranno probabilmente le uniche dotate di senno.

Nel frattempo, in molte città turistiche montano le proteste contro il turismo sfrenato. A fine maggio, decine di migliaia di persone hanno invaso le strade di Palma di Maiorca, minacciando di bloccare a loro volta l'aeroporto, al grido di "meno turismo, più vita." Qualche settimana fa, invece, a Barcellona i turisti sono stati presi di mira da dimostranti armati di pistole d'acqua. Sono solo due tra le decine di proteste spontanee che stanno punteggiando quest'estate, e hanno un bersaglio ben preciso: il cosiddetto "overtourism", ossia quel livello di sovraffollamento turistico che porta a uno stravolgimento drammatico delle comunità locali. Uno degli effetti più lampanti di questa tendenza è l'innesco di crisi abitative che rendono impossibile per molti residenti continuare a vivere dove hanno sempre vissuto: la turistificazione dei quartieri, la diffusione capillare di guest-house e Airbnb, l'aumento dell'inquinamento e dei costi di gestione, finisce per fare impennare gli affitti e i prezzi d'acquisto, svuotando le città delle stesse persone che da sempre le rendevano vitali.

Diverse città (come Amsterdam, Firenze, Copenhagen) stanno correndo ai ripari, adottando misure per dissuadere la concentrazione di visitatori in determinati periodi e determinate zone. Sono misure promettenti, che spesso comportano delle perdite sul breve termine: Amsterdam, per dire, ha bandito la costruzione di nuovi hotel e annunciato uno stop futuro alle navi da crociera. Ma per risolvere il problema probabilmente le misure non basteranno. Servirà un cambiamento più trasversale, e culturale.

La cultura estrattivista del turismo

C'è uno studio, condotto qualche anno fa da Expedia sulla generazione millennial, che racconta bene la deriva patologica del turismo. Stando all'analisi, una netta maggioranza di chi oggi ha tra i 30 e 45 anni dichiara di preferire spendere i soldi in viaggi, e di scegliere quali mete visitare anche sulla base delle reazioni che potranno generare sui social. Una cosa che accomuna invece tutte le fasce demografiche è la pretesa di visitare "gioielli nascosti" e "sperimentare la vita dei locali."

Viaggiare, insomma, è sempre più una questione di status-symbol, le persone che viaggiano all'estero per le vacanze sono ogni anno di più, allo stesso tempo però nessuno vuole più considerarsi turista. È un paradosso che racconta bene i tempi che stiamo vivendo. Spendiamo cifre notevoli per riportare a casa esperienze esclusive ma poi ci lamentiamo perché troppa altra gente ha sentito la nostra stessa esigenza. Un po' come quando prendi la macchina per risparmiare tempo ma poi ti ritrovi a perderne molto di più incastrato nel traffico, e invece di riconsiderare la tua scelta ti arrabbi con chi si è comportato esattamente come te. Insomma, i turisti non li sopporta più nessuno (compresi i turisti stessi), eppure ben pochi sono disposti a rinunciare alla loro costosissima settimana di fuga dalla realtà. Come si spiega questo paradosso?

Una ragione è che ci troviamo in una fase di passaggio: dopo la battuta d'arresto del Covid, con la crisi climatica che rende sempre meno appetibili alcune mete, il turismo dovrà necessariamente trasformarsi, ma ancora non ha deciso cosa fare da grande. Nel dubbio, continua a battere la strada che conosce. Nel 2024 il mercato globale del turismo arriverà a superare l'asticella degli 11.000 miliardi di dollari, e di qui ai prossimi dieci anni si prevede un'ulteriore impennata che potrebbe portare il settore a quota 16.000 miliardi. Una simile crescita, naturalmente, avrà un impatto enorme sull'ambiente e sulle città, basti pensare che il programma delle Nazioni Unite per l'ambiente (Unep), stima che di qui al 2050 la crescita del turismo comporterà il 154% in più nel consumo di energia, il 131% in più di emissioni e il 251% in più in costi di smaltimento per rifiuti solidi.

Ma già oggi molte località turistiche hanno raggiunto il punto di saturazione, e la colpa è anche del boom dei voli low-cost che ha interessato gli ultimi vent'anni. Di fronte all'inedita possibilità di spostarci su lunghe distanze senza spendere capitali, non ci siamo fermati a chiederci se avessimo effettivamente voglia di viaggiare, l'abbiamo fatto e basta. E abbiamo preso l'abitudine ad approfittare di ogni occasione per raggiungere mete il più possibile diverse dal posto in cui viviamo tutto l'anno, per poi spesso ritrovarci a vivere esperienze tutt'altro che autentiche, in situazioni sovraffollate e soffocanti.

Il turismo a venire

Per formulare quella previsione azzardata di cui parlavo a inizio pezzo c'è bisogno di tenere conto di un altro aspetto: in buona parte del globo l'estate sta diventando una stagione sempre più estrema e precaria, e in diversi paesi già si stanno sperimentando soluzioni alternative nella suddivisione dei giorni di vacanza. Diversi studi hanno dimostrato che ridurre la pausa estiva per spalmare i giorni di ferie nel resto dell'anno comporta vantaggi dal punto di vista della produttività lavorativa e scolastica, oltre ad avere ricadute psicologiche benefiche.

Nel momento in cui smetteremo di andare quasi tutti in vacanza nello stesso periodo, il concetto stesso di vacanza inevitabilmente cambierà, e probabilmente si ridurrà la pressione sociale che oggi pesa sulle nostre scelte di viaggio. Quello che possiamo aspettarci è che il tipo di turismo che oggi consideriamo normale diventerà non solo meno sostenibile, ma anche meno appetibile, un capriccio che di fatto comporta più costi che vantaggi. L'idea di concentrare in una manciata di giorni una serie di esperienze memorabili, che sta alla base del turismo intensivo, è una stortura che in futuro probabilmente ci sembrerà folle.

È ragionevole quindi immaginare (e auspicare) che nei prossimi decenni questa tendenza si invertirà; che i periodi di vacanza non saranno per tutti concentrati in una sola stagione poco agevole; che avremo una diversificazione del concetto di vacanza, che assumerà nuove declinazioni, molte delle quali non avranno a che fare con il prendere aerei e spostarsi su lunghe tratte. Questo significa che smetteremo di viaggiare? No, ma probabilmente viaggeremo meno e daremo a quei viaggi un'importanza diversa. Un po' come succedeva prima che Thomas Cooke caricasse 600 persone su un treno promettendo per un solo scellino un'esperienza indimenticabile.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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