Il tasso di reinfezione della variante Omicron è oltre 5 volte quello della Delta
La variante Omicron (B.1.1.529) del coronavirus SARS-CoV-2 ha un tasso di reinfezione oltre cinque volte superiore rispetto a quello calcolato per la variante Delta (B.1.617.2, ex seconda variante indiana), che attualmente sta guidando la quarta ondata di contagi. Tuttavia, a causa dell'estrema trasmissibilità e delle capacità di fuga immunitaria della nuova variante, gli esperti ritengono che presto il ceppo “super mutato” possa detronizzare la Delta dalla sua posizione dominante. Non a caso la Omicron è stata rapidamente classificata come variante di preoccupazione (VOC) dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), poco dopo la sua scoperta in Sudafrica, dove è stata responsabile di un'esponenziale crescita di contagi. Basti pensare che in appena un mese, da quando ha iniziato a diffondersi, si è passati da circa 300 a oltre 22mila nuove infezioni al giorno.
Dati preoccupanti iniziano ad arrivare soprattutto dal Regno Unito, dove attualmente la variante Omicron rappresenta il 2,5 percento dei campioni virali sequenziati dai tamponi (in Italia siamo allo 0,6 percento). Giovedì 16 dicembre i casi della nuova variante in UK sono stati 1.691, portando a un totale di 11.708 casi da quando è stata rilevata la prima volta sul suolo britannico. Come indicato nel documento “Report 49: Growth, population distribution and immune escape of Omicron in England” pubblicato da scienziati del WHO Collaborating Centre for Infectious Disease Modelling e del Jameel Institute dell'Imperial College di Londra, i dati relativi ai tassi di crescita della nuova variante “si traducono in tempi di raddoppio inferiori a 2,5 giorni”. Secondo gli esperti guidati dal professor Neil Ferguson sono stime coerenti o addirittura superiori ai tempi di raddoppio riportati dagli studi epidemiologici condotti in Sudafrica.
I ricercatori britannici affermano che la variante Omicron non è ancora distribuita uniformemente nella popolazione, ma la sua frequenza è particolarmente elevata nell'area di Londra, dove sono state osservate “forti evidenze di fuga immunitaria”, cioè la capacità eludere le difese immunitarie, sia quelle indotte da una precedente infezione naturale che quelle legate al vaccino. Per quanto concerne il rischio di reinfezione, cioè di riottenere un tampone positivo ad almeno 3 mesi o da una precedente negativizzazione, come indicato dal professor Ferguson e dai colleghi è stato trovato un valore ben 5,41 (IC 95%: 4,87-6,00) volte superiore rispetto alla variante Delta. In parole semplici, chi è stato già contagiato dal coronavirus SARS-CoV-2 ha una probabilità di essere reinfettato dalla variante Omicron 5,41 volte maggiore rispetto a quello calcolato per la variante attualmente dominante.
“La nostra stima del rapporto di rischio per la reinfezione rispetto a Delta supporta anche l'analisi precedente di rischio di reinfezione in Sudafrica. Prima di Omicron, lo studio di coorte SIREN sugli operatori sanitari del Regno Unito ha stimato che l'infezione da SARS-CoV-2 ha fornito una protezione dell'85 percento contro la reinfezione in 6 mesi, o un rischio relativo di infezione di 0,15 rispetto a coloro senza infezione precedente. La nostra stima del rapporto di rischio suggerirebbe che il rischio relativo di reinfezione è salito a 0,81 [IC 95%: 0,73-1,00] (cioè una rimanente protezione del 19 percento [95%CI: 0-27%]) contro la Omicron”, scrivono gli scienziati britannici. In precedenza uno studio condotto in Sudafrica aveva rilevato un rischio di reinfezione 2,4 volte maggiore.
Gli scienziati britannici hanno rilevato anche una significativa elusione degli anticorpi neutralizzanti indotti dai vaccini: la protezione residua contro l'infezione sintomatica da parte di due dosi di AstraZeneca è considerata “molto limitata”, mentre per il vaccino anti Covid di Pfizer risulta “bassa”. In quest'ultimo caso, tuttavia, arriverebbe al 50-80 percento grazie al booster/ richiamo. Questa capacità di eludere le difese immunitarie da parte della variante Omicron è legata al numero significativo di mutazioni (oltre 30) rilevate sulla proteina S o Spike del patogeno pandemico, il “grimaldello biologico” che il SARS-CoV-2 sfrutta per legarsi al recettore ACE-2 delle cellule umane, disgregare la parete cellulare, riversare l'RNA virale all'interno e avviare la replicazione, che a sua volta determina la malattia chiamata COVID-19.
Poiché i vaccini anti Covid si basano sull'innescare immunità proprio verso la proteina S, e poiché quella della variante Omicron è molto differente da quella del ceppo originale e selvatico emerso a Wuhan, in Cina, ne consegue una significativa capacità nel “bucare” lo scudo indotto dalla vaccinazione. Fortunatamente la protezione dalla malattia grave e dalla morte resta sostanziale, soprattutto con la terza dose, come evidenziato dai primi studi, mentre il rischio di contagiarsi sale vertiginosamente a pochi mesi dall'inoculazione della seconda dose. Gli scienziati britannici concludono sottolineando che “il quadro ancora emergente ma sempre più chiaro che Omicron pone è una minaccia immediata e sostanziale per la salute pubblica”.