Il Mar Mediterraneo è “rovente” da mesi, picchi di 5° C in più rispetto alla media. I rischi
Le temperature sensibilmente superiori alla media stagionale continuano a influenzare negativamente il Mar Mediterraneo, le cui acque risultano costantemente molto più calde di quel che dovrebbero. In alcune aree marine si stanno registrando picchi di circa 5° C in più rispetto al periodo di riferimento, un dato drammatico che ha molteplici conseguenze. Queste temperature, infatti, fra le altre cose minano gravemente la salute degli ecosistemi e catalizzano il rischio di eventi atmosferici estremi, oltre a minacciare la produttività del Mare Nostrum. Tra i rischi principali figurano i cosiddetti Medicane, gli uragani mediterranei (il nome deriva dalla fusione dei termini Mediterranean e Hurricane), che riversano con violenza tutta l'energia accumulata in atmosfera a causa del calore estremo.
A determinare che il Mar Mediterraneo continua a essere molto più caldo della media di riferimento sono stati gli scienziati del Servizio di monitoraggio dell'ambiente marino di Copernicus (CMEMS), il progetto di ricerca gestito in collaborazione tra la Commissione Europea e l'Agenzia Spaziale Europea (ESA). Grazie ai sensori installati sui satelliti Sentinel – che entro il 2030 saranno circa 20 – la missione Copernicus raccoglie costantemente informazioni sull'atmosfera, sul mare e sulla terraferma, come appunto le temperature. Il 30 ottobre sono stati registrati picchi di circa 5° C in più rispetto alla media storica di riferimento (1985 – 2005), localizzati principalmente innanzi alla costa meridionale della Francia e a quelle liguri e toscane dell'Italia, con punte di rosso scuro anche attorno alla Sardegna.
Il primo rapporto del progetto europeo CAREHeat (acronimo di deteCtion and threAts of maRinE Heat waves – rilevamento e minacce delle ondate di calore marine) pubblicato a giugno aveva rilevato che tra il 10 maggio e la metà di giugno 2022 la temperatura superficiale del Mar Mediterraneo è risultata mediamente più alta di 4° C rispetto alla media storica. Stiamo per entrare a novembre e questo dato è rimasto pressoché inalterato nel corso di tutta l'estate, evidenziando un'anomalia eccezionale e prolungata nel tempo. Essa è figlia dei cambiamenti climatici scatenati dalle emissioni di anidride carbonica (CO2), metano (CH4) e altri gas a effetto serra derivati dalle attività umane.
Le conseguenze di un Mediterraneo “bollente”, come indicato, sono molteplici. A soffrirne principalmente sono gli ecosistemi marini, che vengono letteralmente stravolti nelle dinamiche fondamentali. Le variazioni nelle correnti marine scaturite dalle alte temperature, ad esempio, alterano la distribuzione e la disponibilità del plancton, con tutto ciò che ne consegue per la catena trofica / alimentare del Mare Nostrum (lo zooplancton e il fitoplancton ne rappresentano i pilastri). Ciò ha un impatto diretto sulla migrazione e sugli spostamenti degli animali – questa estate, ad esempio, si sono visti molti meno cetacei in alcune aree della Sardegna -, inoltre può ridurre sostanzialmente gli stock ittici, la cui disponibilità ha anche conseguenze sulla produttività e sull'economia. Le temperature troppo alte inoltre favoriscono la riduzione dell'ossigeno che aumenta le probabilità di fioriture algali esplosive e tossiche, che possono avere conseguenze sulla fauna marina ma anche sulla salute pubblica. Temperature marine troppo elevate, inoltre, a causa del costante scambio di calore con l'atmosfera e il conseguente accumulo di energia aumentano in modo significativo il rischio di fenomeni estremi, come i già citati Medicane, ma anche tornado (trombe d'aria), tempeste e alluvioni. L'energia accumulata deve infatti scaricarsi in qualche modo e ciò può avvenire in modo estremamente repentino e violento.
Questi effetti dei cambiamenti climatici risultano ancor più significativi nelle aree in cui l'acqua marina è a contatto con i ghiacci dei poli, dato che ne favorisce lo scioglimento e il conseguente innalzamento del livello del mare. È una delle minacce principali del riscaldamento globale, che farà finire sott'acqua intere isole, metropoli e regioni costiere entro il 2100, se non riusciremo a contenere l'aumento delle temperature medie rispetto all'epoca preindustriale.