Il coronavirus rilevato nello sperma a 110 giorni dall’infezione: “Aspettate 6 mesi per fare figli”
Il coronavirus SARS-CoV-2, il patogeno responsabile della pandemia di COVID-19, può persistere per 110 giorni (o più) nello sperma dei pazienti dopo la diagnosi. È quanto emerso da un nuovo studio che ha indagato a fondo sui potenziali rischi riproduttivi dell'infezione. È noto da anni che il virus, pur essendo tecnicamente classificato tra i patogeni respiratori, è in grado di infettare agevolmente le cellule di quasi ogni tessuto del corpo umano. Già nel 2020 era emerso che fosse in grado di invadere sperma e testicoli, come evidenziato da studi dell'Ospedale Generale dell'Esercito di Liberazione del Popolo Cinese e indicazioni della Società Italiana di Urologia (SIU), ma fino ad oggi non era chiaro se potesse aggredire direttamente gli spermatozoi e il tempo di persistenza nel liquido seminale.
A determinare che il coronavirus SARS-CoV-2 può essere rilevato nello sperma circa quattro mesi dopo la diagnosi dell'infezione è stato un team di ricerca brasiliano guidato da scienziati della Facoltà di Medicina dell'Università di San Paolo, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi di diversi istituti. Fra quelli coinvolti l'Istituto Androscience, il Dipartimento di Scienze Precliniche dell'Università de La Frontera e l'Università Justus Liebig Giessen. I ricercatori, coordinati dal professor Jorge Hallak, docente presso la Divisione di Urologia dell'ateneo carioca, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver analizzato i campioni di sperma di 13 pazienti affetti da COVID-19 (con sintomi da lievi a gravi) con un'età compresa tra i 21 e i 50 anni, tutti ricoverati presso l'Hospital das Clínicas, l'ospedale universitario dell'ateneo di San Paolo.
Per prima cosa hanno sottoposto i campioni ai test della reazione a catena della polimerasi (PCR) per individuare il DNA virale, ma tutti gli esami sono risultati negativi. La “sorpresa” è arrivata quando il liquido seminale è stato analizzato con la PCR in tempo reale e la microscopia elettronica a trasmissione (TEM) in grado di rilevare l'RNA virale. Il coronavirus SARS-CoV-2 si è manifestato nel 72,7 percento dei campioni di persone che hanno avuto Covid moderato e severo (8 su 11). Il virus è stato successivamente rilevato anche in uno dei pazienti con la forma lieve dell'infezione. Uno degli aspetti più significativi risiede nel fatto che il patogeno era presente a oltre tre mesi dalle dimissioni dall'ospedale e a 110 giorni dalla diagnosi dell'infezione; è possibile che il SARS-CoV-2 potesse essere presente già da prima e soprattutto persistere anche per più tempo nel liquido seminale, prolungando le tempistiche rilevate.
Un altro dettaglio molto interessante dello studio brasiliano è la scoperta che gli spermatozoi producevano “trappole extracellulari dei neutrofili” (NET), un sistema di difesa immunitario per provare a bloccare e uccidere le particelle virali. “Abbiamo scoperto che lo sperma produceva “trappole extracellulari” basate sul DNA nucleare. In altre parole, il materiale genetico nel nucleo si è decondensato, le membrane cellulari degli spermatozoi si sono rotte e il DNA è stato espulso nel mezzo extracellulare, formando reti simili a quelle descritte in precedenza nella risposta infiammatoria sistemica al SARS-CoV-2”, ha dichiarato all'Agenzia FAPESP il professor Hallak. “La scoperta che gli spermatozoi fanno parte del sistema immunitario innato e aiutano a difendere l’organismo dall’attacco degli agenti patogeni è unica in letteratura e rende lo studio molto importante. Può essere considerato un cambiamento di paradigma scientifico”, ha chiosato l'esperto.
Il fatto che il virus permane così a lungo nel liquido seminale – alterandone la qualità – può rappresentare un problema per la salute riproduttiva, proprio per questo il professor Hallak consiglia a chi vuole avere figli di aspettare almeno sei mesi dall'infezione per provare a concepire. Stessa “quarantena” dovrebbe essere seguita da chi dona il seme. Proprio uno studio sui donatori danesi ha evidenziato che, durante la pandemia, sono crollate la densità e il numero degli spermatozoi mobili, fondamentali per la fertilità. Secondo gli esperti, tuttavia, non sarebbe un effetto diretto del patogeno, bensì delle conseguenze dei lockdown e delle altre misure che hanno modificato routine e abitudini di vita, in grado di influenzare negativamente la qualità dello sperma. I dettagli dello studio brasiliano “Transmission electron microscopy reveals the presence of SARS-CoV-2 in human spermatozoa associated with an ETosis-like response” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica specializzata Andrology.