Esperto INGV a Fanpage.it: “Ecco cosa sta succedendo al vulcano dei Campi Flegrei”
Da sempre motivo di preoccupazione per i residenti dell’area nord-occidentale di Napoli, la caldera dei Campi Flegrei è in continua evoluzione. La sua inquietudine, accompagnata da piccoli terremoti sempre più frequenti, sta producendo cambiamenti strutturali della sua crosta, passata da un regime “elastico” a uno “anelastico” che, a detta degli autori di un nuovo studio appena pubblicato su Communications Earth & Environment, la rivista di scienze ambientali e planetarie di Nature, segna una variazione rilevante nel suo potenziale di rottura. Ma cosa implica questa variazione? E quanto dobbiamo preoccuparci? “Il nostro studio mostra che la crosta flegrea è diventata più fragile, quindi più propensa a fratturarsi – spiega a Fanpage.it il dottor Nicola Alessandro Pino dell’Osservatorio Vesuviano dell’INGV (INGV-OV), co-autore senior dell’articolo – . Per ora, non possiamo però dire a cosa porterà la fratturazione, se a scenari catastrofici o meno”.
Perché? Ciò che stiamo osservando è un importante aumento nel numero di terremoti in assenza di variazioni significative della velocità di sollevamento del suolo. Da poche centinaia di scosse degli anni precedenti siamo passati a 500-600 terremoti al mese, probabilmente dovuti a una variazione dello stato di elasticità della crosta. Vale a dire che, con il progressivo sollevamento della caldera flegrea, iniziata a risalire intorno al 2005, e quindi con l’aumentare dello sforzo, le fratture che si stanno verificando principalmente nell’area centro-orientale, verso Solfatara-Pisciarelli, potrebbero raccordarsi e permettere una fratturazione di dimensioni più elevate.
Con quali conseguenze?
Una frattura più grande potrebbe rappresentare una via preferenziale di risalita di fluidi e gas di natura vulcanica o, alternativamente, di magma, che sono le due ipotesi sulla sorgente della sovrappressione alla base del sollevamento. Attualmente, la velocità di questo sollevamento è di circa 1,5 cm al mese, non la più elevata – al termine dl 2012 era di oltre 2 cm al mese – ma tale risalita indica comunque che la pressione, la cui sorgente si stima che sia ad una profondità di circa 3 km, sta continuando ad aumentare.
Su questa base, quello che pensiamo possa succedere è che, continuando a montare questa pressione, si arrivi a una fratturazione dell’intero spessore crostale.
Nello scenario più catastrofico, ciò potrebbe portare a un’esplosione di carattere freatico, cioè un’espansione istantanea di notevoli volumi di gas e vapore, oppure, in caso di sorgente magmatica, a un’eruzione. Nello scenario opposto, potrebbe invece accadere esattamente il contrario, con questa frattura che permetterebbe una fuoriuscita più lenta di gas e vapore. Pertanto, fratturazione non equivale necessariamente a dire eruzione.
Una discriminante risiede anche nella natura di questa sorgente, se si tratti di volumi magmatici o fluidi di origine profonda. Questa seconda ipotesi sembra essere la più probabile.
Cosa ci dice che non è magma?
È l’assenza di alcuni segnali fisici e chimici che possano far pensare a importanti volumi magmatici risaliti a 3 km di profondità. Per farle un esempio, nel caso di un afflusso di grandi quantità di magma, avremmo dovuto misurare in superficie delle variazioni di gravità, che non sono però osservate.
Verrebbero quindi liberati gas e fluidi idrotermali? L’aria diventerebbe irrespirabile? E gli uccelli morirebbero come si narra per il lago d’Averno?
Nell’eventualità in cui questi gas venissero liberati in maniera energica, il problema principale non sarebbe quello delle esalazioni, quanto l’aspetto dell’esplosività. Questi volumi potrebbero infatti venire fuori con notevole sovrappressione, provocando un’esplosione freatica probabilmente localizzata e comunque meno violenta di un’esplosione causata da magma in superficie.
Ci sono delle aree a più alto rischio di eruzione?
Probabilmente l’area Solfatara-Pisciarelli, dove la crosta in questo momento è più debole, anche se, come le dicevo, la fratturazione di per sé non porta necessariamente a un’eruzione. In quanto tale, può rappresentare un aumento ma anche una diminuzione della pericolosità, perché può essere sia una via di risalita rapida di importanti volumi di gas o magma, sia una via di depressurizzazione della sorgente.
Potrebbe essere quindi un male, ma anche un bene?
Esattamente. Ma per capire cosa comporterà la fratturazione, dovremo osservare quale sarà la sua evoluzione. Per ora, ciò che possiamo dire con certezza è che la crosta in quell’area è più propensa alla rottura, ma a cosa possa portare è ancora da vedere.