Covid, perché oggi si rischia la reinfezione entro poche settimane
Le prime infezioni da coronavirus SARS-CoV-2 furono registrate a Wuhan (Cina) alla fine del 2019 e pochi mesi dopo, l'11 marzo del 2020, il direttore dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) Tedros Adhanom Ghebreyesus fece la dichiarazione della pandemia di COVID-19. Il virus, da epidemico, si era infatti rapidamente diffuso in tutto il mondo ed era ormai fuori controllo. Sono dunque trascorsi circa quattro anni da quando conviviamo con questo patogeno, evolutosi in una moltitudine di varianti e sottolignaggi che ancora oggi destano preoccupazione e soprattutto provocano vittime. Nonostante la conoscenza del SARS-CoV-2 sia migliorata enormemente dalle prime, drammatiche fasi della pandemia, ci sono ancora molti punti oscuri che lo caratterizzano. Uno di essi è il tempo di reinfezione, cioè la finestra temporale che intercorre tra un tampone positivo, la negativizzazione e un altro. In alcuni casi estremi è possibile contrarre una nuova infezione anche pochissime settimane dopo essersi ammalati, principalmente a causa delle molteplici varianti del patogeno e della loro spiccata immunoevasività, cioè della capacità di eludere gli anticorpi, in particolar modo dell'affollata famiglia della variante Omicron, ancora oggi dominante.
Come spiegato alla NBC News dalla dottoressa Grace McComsey, vicedirettrice per la ricerca clinica e traslazionale presso la Case Western University, ci sono alcuni pazienti da lei seguiti che hanno contratto la COVID-19 (la malattia provocata dal coronavirus) anche cinque volte di seguito. I CDC sottolineano che le reinfezioni si verificano quando si viene infettati, si guarisce e si viene nuovamente infettati, un ciclo che può ripetersi più e più volte in base alla suscettibilità personale e alle caratteristiche del patogeno. Tra i casi balzati agli onori della cronaca più emblematici vi è quello di un'operatrice sanitaria spagnola presentato al Congresso Europeo di Microbiologia e Malattie infettive (ECCMID); la trentunenne risultò positiva, negativa e poi nuovamente positiva nell'arco di appena 20 giorni, come mostra questo studio. Fu infatti prima infettata dalla variante Delta e poi dalla Omicron. Oggi, con le molteplici varianti ricombinanti di Omicron, questo tempo sembra essere addirittura ristretto.
Non è ancora chiaro quale possa essere il tempo minimo che può intercorrere tra un'infezione e l'altra, ma come spiegato dalla British Heart Foundation la risposta è che esso, probabilmente, varia da persona a persona. Ciò che è certo è che da quando è emersa la variante Omicron, in base ai dati dell'Office fon National Statistics, il tasso di reinfezione è aumentato di cinque volte rispetto alla Delta, quella precedentemente dominante. Lo studio “Past SARS-CoV-2 infection protection against re-infection: a systematic review and meta-analysis” pubblicato sull'autorevole rivista scientifica The Lancet spiega che fino alla variante Delta la protezione del rischio di reinfezione poteva durare anche 40 settimane, ma tale “scudo” si è ridotto sensibilmente da quando è comparsa Omicron. Essa, del resto, è caratterizzata da molteplici mutazioni sulla proteina S o Spike del virus, il gancio biologico sfruttato dal patogeno per legarsi alle cellule umane e infettarle. Tali mutazioni determinano una spiccata immunoevasività che è particolarmente significativa nelle sottovarianti ricombinanti, come quelle che stanno guidando le ondate di contagi dell'ultima fase della pandemia. Kraken, Gryphon, Eris (attualmente dominante in Italia), Pirola e le altre hanno tutte dimostrato in laboratorio sono molto più abili a eludere gli anticorpi rispetto a quelle che le hanno precedute. E non va dimenticato che le reinfezioni con Omicron sono più comuni anche perché l'immunità legata alla precedenti infezioni e alla vaccinazione si è ridotta nel tempo, con le campagne vaccinali che arrancano.
Il coronavirus SARS-CoV-2 si evolve continuamente per ragioni naturali – mutazioni casuali durante la replicazione nell'ospite – ma risponde anche per selezione naturale alla pressione delle vaccinazioni e delle immunizzazioni dovute alle precedenti infezioni naturali. In parole semplici, cerca sempre una nuova via per infettarci. Vanno anche tenute in conto le terapie per trattare le infezioni. Come riportato dall'associazione sui vaccini GAVI, secondo il professor Eric Topol, docente di medicina molecolare e direttore presso lo Scripps Translational Science Institute di La Jolla, è probabile che la variante EG.5 (Eris) possa essere emersa a causa dell’uso diffuso di anticorpi monoclonali per trattare i pazienti con COVID-19. “Sebbene efficaci, questi farmaci possono inavvertitamente favorire lo sviluppo di virus con proprietà alterate, perché i virus che portano mutazioni aggiuntive hanno maggiori probabilità di sopravvivere e infettare altre persone”, spiega GAVI. Se a tutto questo aggiungiamo la sopracitata e spiccata immunoevasività della variante Omicron, ecco spiegato il rischio di reinfezioni a brevissima distanza l'una dall'altra, soprattutto in persone immunodepresse e nei soggetti che non si sono vaccinati (anche chi ha fatto tutte le dosi raccomandate resta comunque esposto al rischio di reinfezione).
Nonostante vi sono significative probabilità di infettarsi più e più volte col coronavirus, fortunatamente, il rischio di malattia grave è molto inferiore rispetto a quello registrato nellelle prime fasi della pandemia, proprio perché il nostro sistema immunitario è ormai allenato – dai vaccini e dalle infezioni naturali – grazie alla continua esposizione al patogeno e riesce a combatterlo efficacemente, facendo emergere in genere sintomi lievi o casi asintomatici. Ma ciò non significa che non ci siano rischi. “Le reinfezioni sono spesso lievi – spiegano i CDC – ma possono verificarsi malattie gravi. Se vieni reinfettato, puoi anche diffondere il virus ad altri. Rimanere aggiornati con il vaccino contro la COVID-19 e trattare la malattia da COVID-19 entro pochi giorni dall’inizio dei sintomi riduce il rischio di contrarre una malattia grave”.
Il rischio maggiore è naturalmente per i soggetti fragili, le persone anziane e con comorbilità sottostanti, che rischiano di sviluppare la forma severa della malattia e finire ricoverate in ospedale, se non addirittura perdere la vita. Sono infatti ancora moltissime le persone che perdono la battaglia contro il coronavirus SARS-CoV2, anche in Italia. Secondo l'ultimo bollettino del Ministero della Salute tra il 30 novembre e il 7 dicembre 2023 sono morte di Covid oltre 300 persone nel nostro Paese. Seguire le raccomandazioni dei medici e delle autorità sanitarie in termini di vaccinazione e misure anti contagio (mascherine, lavarsi le mani, restare a casa con i sintomi) è fondamentale per proteggere le fasce di popolazione più deboli dal virus, dal quale molto probabilmente non ci libereremo mai più.