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Cambiamenti climatici

Cosa vuol dire un aumento di 3 °C della temperatura media globale: la spiegazione del climatologo

Secondo un nuovo rapporto dell’ONU entro il 2100 vivremo in un mondo molto più caldo (fino a 3,1 °C in più) se non taglieremo in modo rapido e netto le emissioni di anidride carbonica. Fanpage.it ha contattato il climatologo Massimiliano Pasqui del CNR per un commento sulla traiettoria della crisi climatica e sulle soluzioni indicati nel documento.
Intervista a Massimiliano Pasqui
Climatologo presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR)
A cura di Andrea Centini
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Giovedì 24 ottobre 2024 il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) ha pubblicato un nuovo rapporto dedicato alla crisi climatica in corso, evidenziando non solo la preoccupante traiettoria verso la quale ci stiamo dirigendo, ma anche le necessarie misure da intraprendere per poter contenere i drammatici effetti del riscaldamento globale. Il nocciolo della questione è chiaro ed evidente: se non tagliamo in modo drastico e rapido le emissioni di CO2 e altri gas climalteranti, entro la fine del secolo rischiamo di trovarci con un riscaldamento fino a 3,1 °C superiore rispetto all'epoca preindustriale. Ciò significa che siamo innanzi a uno scenario molto peggiore di quello che si prospetta con un aumento delle temperature medie di 1,5 °C, la soglia virtuosa indicata alla conferenza sul clima di Parigi del 2015. L'UNEP sottolinea che siamo ancora in tempo per centrare questo obiettivo, ma per farlo bisogna tagliare praticamente la metà delle emissioni odierne entro il 2035, con un primo step significativo da conquistare già alla fine di questo decennio. Per comprendere meglio cosa ci attende nello scenario peggiore e cosa possiamo fare per scongiurarlo Fanpage.it ha contattato il professor Massimiliano Pasqui, Climatologo presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). Ecco cosa ci ha raccontato.

Professor Pasqui, il report dell'UNEP indica che se non agiamo rapidamente contro le emissioni di CO2 possiamo aspettarci un riscaldamento fino a 3.1 °C rispetto all'epoca preindustriale, quando la raccomandazione è di non superare possibilmente la soglia di 1,5 °C. Cosa si prospetta con questo scenario?

Il limite di 1,5 °C viene dall'Accordo di Parigi del 2015. In realtà l'accordo poneva un tetto a 2 °C e teneva 1,5 °C come un confine di tutela, più virtuoso. Come per dire, cerchiamo di restare entro 2 °C, ma se riusciamo a stare entro 1,5 °C è meglio. Nella narrazione collettiva il grado e mezzo è diventato un limite, sostanzialmente, ma non è stata compresa la portata delle azioni che avrebbe mantenuto la temperatura entro tale soglia. Dal punto vista scientifico è uno dei limiti planetari, un concetto in cui si guarda all'interesse del sistema climatico terrestre. Si identificano delle componenti rilevanti e all'interno di queste componenti rilevanti vengono valutati dei limiti che mantengono il pianeta nella sua integrità, appunto. In inglese si parla di operating space, cioè spazio delle operazioni, ma è un termine inglese purtroppo non traducibile facilmente, è un gergo un po' ingegneristico. Entro questi limiti, la dinamica del pianeta risulta in uno stato di equilibrio che possiamo definire sicuro. È all'interno di uno spazio sicuro, lo potremmo tradurre così.

Questa integrità del sistema terrestre, all'interno di questo spazio sicuro, è garantita da alcuni limiti, tra cui anche quello di cui parlavamo prima; la temperatura globale media all'interno di una soglia di aumento specifico. Ad ogni soglia che uno poi “buca”, cioè che non rispetta, come ha detto il grande scienziato svedese Rockström, ogni singolo decimo di grado ha un'implicazione grandissima. Su questo mi riallaccio alla sua domanda iniziale: questi valori sono stati elaborati nel corso di uno sforzo di ricerca mondiale che va avanti da ormai 30 anni in maniera più specifica, coordinata e organica, rispetto anche ai decenni precedenti in cui magari era meno organica, pur puntando sempre a svelare il sistema climatico terrestre. I numeri che stiamo commentando rappresentano le soglie di mantenimento o meno di questo stato di equilibrio nello spazio di sicurezza del pianeta Terra.

Oltre queste soglie, e in particolare dopo quelle di 1,5 °C  e 2,0 °, noi sappiamo che la società che noi conosciamo sarà sotto una forte pressione dal punto di vista della variabilità climatica. E quindi in questo senso mi viene da rispondere che purtroppo le conseguenze le conosciamo. Sappiamo cosa significa anche un solo decimo di grado in più. Sappiamo che per gran parte della popolazione umana e dei territori del pianeta che sono abitati, questo scenario significa pressione e impatti preminentemente negativi. Con ovviamente anche delle opportunità, ma queste devono essere colte e devono essere in qualche maniera ricercate attraverso un processo di creatività, fondato su un pensiero che trae vantaggio dalla conoscenza scientifica. Noi sappiamo che al superamento ulteriore di queste soglie, la pressione del cambiamento climatico sarà sempre più forte. Una pressione negativa che diventa una sfida per la nostra società.

Un recente studio del World Resources Institute indica che con un riscaldamento di 2 °C il mare si alzerebbe di 6 centimetri in più rispetto a uno di 1,5° C, mentre la popolazione esposta alle ondate di calore estreme sarebbe 2,6 volte superiore. Chiaramente, con un aumento di 3,1 °C delle temperature medie possiamo aspettarci uno scenario sensibilmente peggiore per questi e altri fattori.

Sì, perché fra l'altro non è una progressione lineare. Non significa che a un decimo o a un centesimo di grado in più corrisponde un aumento proporzionale della pressione, ma c'è un'amplificazione di questi aspetti. Le informazioni su quali saranno gli effetti a questi livelli di riscaldamento in realtà sono valutazioni che sono state elaborate da parecchi anni. E sono robuste. Rappresentano degli scenari molto solidi, dal punto di vista della stima di un potenziale futuro con queste condizioni. Quello che ho trovato molto pertinente in questo report è il fatto delle implicazioni per rimanere all'interno di queste soglie, che non sono state rispettate, che non sono state in qualche maniera prese in seria considerazione.

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La prossima domanda che le pongo è relativa proprio ai tagli significativi delle emissioni che loro suggeriscono, in un mondo però in cui le emissioni continuano ad aumentare. Cosa ne pensa?

Esatto. Il punto è che per rimanere entro queste soglie soglie di sicurezza, in particolar modo a quella di 1,5 °C o al massimo di 2 °C, le azioni di taglio delle emissioni devono essere fatte in maniera molto intensa da gran parte della popolazione che le emette. Un passaggio del report indica che il 77 percento delle emissioni in realtà sono attribuibili ai venti grandi Paesi del G20. È molto rilevante. Lo sforzo fatto dalle grandi nazioni industrializzate – che sono una minoranze rispetto alla totalità – per rimanere all'interno di questi confini di sicurezza richiede un taglio straordinario, che in questo momento non è evidente.

Infatti le emissioni continuano ad aumentare, nonostante tutto. Pr centrare l'obiettivo di 1,5 °C entro il 2030 servirebbe un taglio del 42 percento, mentre entro il 2035 uno del 57 percento. Non sembra ci sia una volontà politica verso queste riduzioni così importanti.

Infatti è questo proprio il punto critico. Da un punto di vista del sistema climatico terrestre, delle scelte tecniche, ancora abbiamo delle possibilità, ma queste possibilità richiedono un grande sforzo. Ma prima dello sforzo, e questo è importante sottolinearlo, serve una grande trasformazione della società, che ovviamente in questo momento non è evidente, non appare. Tecnicamente ancora possiamo farcela a rientrare dentro questo spazio sicuro, ma ogni giorno diventa sempre più difficile. E mancando la volontà politica potrebbe tranquillamente risolversi in un'ipotesi teorica, sulla carta. Che però non viene colta in nessuna maniera.

I tagli sono realistici secondo lei per raggiungere il risultato?

I tagli proposti sono stati stimati sulla base di assunzioni, come per tutte le cose che riguardano il futuro. Però nel corso degli anni hanno avuto un sempre maggiore irrobustimento, per cui quei valori sono particolarmente indicativi della direzione. Poi ovviamente come tutte le stime hanno una incertezza associata. Però riescono ad indicare bene la direzione e in questo caso l'ordine di grandezza del taglio. Quando sentiamo queste unità percentuali sulle emissione da tagliare dobbiamo essere insoddisfatti. Perché qui stiamo parlando quasi della metà delle emissioni attuali. Questo aspetto richiede indubbiamente uno sforzo individuale, però se io, lei e molti altri cominciamo a dimezzare le emissioni, anche se il nostro contributo rimane elevato non basta, perché queste azioni devono essere colte e intraprese a livello collettivo. Parliamo dei settori dell'energia, dei trasporti, dove la scelta individuale può avere un ruolo, ovviamente, ma è un ruolo più legato alle scelte politiche. Ci deve essere il connubio tra un'azione individuale e un'azione di tipo collettivo. Il punto è proprio quello della trasformazione della società, che deve essere profonda. Secondo me questo è il nodo che ormai dobbiamo affrontare. È diventato in qualche maniera evidente, si è rivelato in tutta la sua profonda complessità. Il punto sostanziale è che dobbiamo cambiare profondamente anche l'idea dei sistemi produttivi. Tutto. Da quello che sappiamo, questi sono gli anni che hanno rilevanza per questo tipo di scelta.

Come dicono spesso gli scienziati, non c'è più tempo per tergiversare

Non c'è più tempo. Il meccanismo climatico è tale che già gli effetti non potremmo comunque azzerarli, però li potremmo confinare. Dopo di che diventa straordinariamente più difficile. Il nodo sostanziale è dunque una trasformazione di un pensiero collettivo. Sia individuale ma anche collettivo, che trasformi la nostra società in una che comunque mantenga alcune delle acquisizioni della modernità, come per esempio aver abbassato i tassi di mortalità infantile e aumentato la longevità umana. Il punto è mantenere queste conquiste ad un costo di sostenibilità ambientale e climatica molto superiore e ovviamente estenderla a chi in questo momento non ce l'ha. Non tutti hanno goduto degli effetti positivi della modernità.

Secondo alcuni lo scenario peggiore del cambiamento climatico può innescare le più grandi migrazioni di massa nella storia dell'umanità, portando a conflitti globali e alla fine della civiltà come la conosciamo già entro il 2050. Secondo lei uno è possibile o è un'esagerazione?

La parte negativa la conosciamo da molti anni. Sono elaborazioni, stime che ormai da molti anni girano nell'ambito scientifico. Tutte le volte che abbiamo provato a confutarle con un approccio scientifico moderno abbiamo fallito. C'è una parte di verità, anche se nessuno sa quello che succederà. Potremmo arrivare alla nostra fine su questo pianeta anche per via di altri meccanismi che non conosciamo. Ma il punto sostanziale è un altro.

Ci spieghi

Noi per la prima volta nella storia possiamo prendere delle decisioni per la salvaguardia dell'umanità, degli ecosistemi e anche un po' a tutela della Terra, che comunque andrebbe avanti anche senza di noi. Possiamo pensare al futuro sulla base della conoscenza scientifica. Gli snodi fondamentali sono avvenuti sempre in un'ottica in cui del futuro se ne conosceva solo una parte, in maniera crescente, ma sempre piccola. Solo negli ultimi 40-50 anni abbiamo capito dal punto di vista ambientale – climatico quale poteva essere l'evoluzione. Quindi anche se per la prima volta ci troviamo in una situazione così estrema, abbiamo la possibilità di fare delle scelte, grazie a un basamento che affonda le radici nel pensiero critico e scientifico. In qualche maniera, oltre alla naturale creatività umana possiamo mettere anche un aspetto di conoscenza scientifica non banale. Questa è l'originalità. La buona notizia, se si vuole, è che abbiamo l'opportunità straordinaria di farcela, perché altrimenti resta solo la visione catastrofica con un senso di impotenza che invece non ci deve essere.

Abbiamo ancora delle possibilità, però dobbiamo anche avere la volontà di conseguirle

La più critica di tutte le cose abbiamo detto è l'aspetto della volontà, che poi è una volontà che non è solo individuale, perché non basta, ma deve essere anche a livello collettivo. Io sono sostanzialmente ottimista, ci arriveremo a questa cosa, ma il punto è il prezzo da pagare per arrivarci. Questo nessuno lo sa, ma sappiamo comunque che per alcune scelte il prezzo sarà più alto di altre scelte. Io ho una speranza "molto umana" sul fatto che supereremo questa difficoltà, il problema è il costo. Quanto pagheremo e soprattutto quanto pagheranno le popolazioni nei territori più vulnerabili. L'esposizione al rischio non è una cosa omogenea su tutto il pianeta. Quando parliamo di quei limiti ci riferiamo a limiti globali, però in realtà c'è qualcuno che entro questi limiti già ci sta con tutte le gambe, altri invece sono ancora dentro la zona più sicura. Qui mi riallaccio a quello che diceva; gli scenari peggiori possono ridefinire la conflittualità sia in piccolo, nel locale, che a livello globale. Si scatena un livello di conflittualità straordinariamente più alto di quello che c'era prima.

In questo rapporto gli scienziati dicono che un contributo significativo può essere dato dalle fonti rinnovabili, solare ed eolico. Con queste potremmo tagliare le emissioni del 27% entro il 2030 e addirittura del 38% secondo le stime. Il nucleare però non rientra nell'equazione dell'UNEP, eppure molti ritengono sia una fonte valida. Cosa ne pensa?

Io non vado al di là della mia della mia opinione personale perché non ho elementi a sufficienza, la parte energetica non è il mio ambito. Però posso dire che siamo su un ordine temporale e di costi economici che vanno oltre la possibilità di applicazione. Il rapporto dell'UNEP è stato stilato da un un raggruppamento parecchio eterogeneo sia di competenze che di menti; ritengo molto rilevante il fatto che non venga menzionato o che comunque venga lasciato in disparte il nucleare. È uno sforzo che vive su scale temporali di messa in operatività molto lunghe, con dei costi straordinariamente alti. È come una bandiera – diciamo così – che sventola al vento, ma che nella sostanza e nella attuale situazione potrebbe non essere rilevante. Sono bandiere che servono un po' a distogliere l'attenzione, perché poi se vai a vedere quello che c'è sotto, in realtà, trovi solo lacrime e sangue. Lasciamo perdere la gestione dei rifiuti, della produzione e di quel tipo di potenza nel mondo reale. Le centrali nucleari hanno lunghissimi periodi di messa in esercizio – parliamo di decenni – e soprattutto una spesa che è nell'ordine di finanziarie di Paesi avanzati come il nostro

Dunque l'investimento giusto per una soluzione è sulle rinnovabili

Non abbiamo una soluzione, ma abbiamo al massimo un processo. E questo processo ovviamente richiede anche un'elaborazione che deve essere valutata in corso d'opera. Non esiste la possibilità di affrontare il cambiamento climatico con un meccanismo a comando. Non c'è una soluzione che sa tanto di bacchetta magica nel Medioevo; qui c'è un processo fatto da tante azioni, alcune delle quali più efficaci, altre meno efficaci. La messa in campo di queste azioni rappresenta una strategia utile per andare in quella direzione, cioè di mantenere il pianeta nelle condizioni di massima sicurezza possibile. Che non vuol dire che dobbiamo tornare indietro rispetto a quanto abbiamo già fatto prima dei cambiamenti climatici. In questo bisogna essere anche moderati, non non tranchant. Il punto, sostanzialmente, è che dobbiamo ridurre le emissioni e ogni giorno che andiamo avanti la riduzione deve essere più aggressiva, cioè deve essere più incisiva. Questo è un aspetto che altera gli equilibri economici del mondo e quindi capiamo la portata della sfida che ci attende.

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