Cosa succede se Trump esce dall’accordo di Parigi, l’esperto: “Non conviene a nessuno puntare sul fossile”
La Cop29 è ormai alle spalle – la ventinovesima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici si è chiusa sabato 23 novembre – ma l'assenza di alcuni leader mondiali ha avuto e ha tutt'ora un chiaro significato difficile da ignorare. A Baku, in Azerbaigian, dove si è svolto il più importante vertice mondiale sul clima, le aspettative non sono mai state alte e i risultati non le hanno smentite.
È vero, l'accordo sulla finanza climatica, ovvero quanti soldi i Paesi più ricchi devono stanziare a favore di quelli meno sviluppati e più sensibili agli effetti della crisi climatica, è stato firmato. Ma la cifra concordata, 300 miliardi di euro entro il 2035, non si avvicina nemmeno lontanamente all'obiettivo dei 1.300 miliardi ogni dodici mesi prefissato prima dell'inizio dei lavori.
Il fantasma di Trump sulla Cop29
D'altronde, la Cop29 non era iniziata nei migliori dei modi, penalizzata in partenza dalla lunga lista degli assenti tra i leader mondiali, tra cui la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, il presidente francese Emmauel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, il premier olandese Dick Schoof e il presidente del Brasile Luis Inacio Lula da Silva. Ma un nome su tutti ha influenzato l'umore con cui è stata affrontata e raccontata la Cop29: Donald Trump.
La notizia della sua vittoria alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, qualche giorno prima dell'inizio del summit non poteva non segnare il suo svolgimento: Trump non ha mai fatto nulla per nascondere il suo completo disinteresse per le questione climatiche, anzi ne ha fatto, anche questa volta, uno dei punti forte della sua campagna elettorale. D'altronde, Trump non si è ancora insediato alla Casa Bianca e già le notizie trapelate in questi giorni darebbero per certa la decisione di far uscire gli Stati Uniti dall'accordo di Parigi, come già aveva fatto nel 2019. Parliamo di uno dei trattati in fatto di clima più importanti degli ultimi anni: prevede l'impegno di ogni Paese firmatario a ridurre le emissioni di gas serra e mettere in atto altre strategie per non aggravare il riscaldamento terrestre, affinché l'aumento delle temperature resti sotto la soglia di 1,5°C.
Se gli Stati Uniti escono dagli Accordi di Parigi
Matteo Villa è un ricercatore dell'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi), si occupa da tempo di fenomeni geopolitici e geo-economici. Fanpage.it lo ha contatto per capire quali conseguenze potrebbe avere l'uscita degli Stati Uniti dall'accordo di Parigi sugli sforzi finora fatti per bloccare o almeno non accelerare la crisi climatica in corso.
Quanto è verosimile che Trump prenderà questa decisione?
Partiamo con il dire che ci sono buone e cattive notizie. È vero, molto probabilmente il giorno uno del suo nuovo mandato Trump annuncerà l'uscita dall'accordo di Parigi, cosa che nel 2016 non ha potuto fare perché per i primi tre anni gli accordi vincolavano i Paesi firmatari a non ritirarsi. Questo significa che esattamente dopo 365 giorni dall'annuncio di Trump gli Stati Uniti saranno fuori dagli accordi, fermo restando che dopo quattro anni potrebbero rientrare come è successo subito dopo l'elezione di Joe Biden.
Cosa significa uscire dagli Accordi di Parigi?
Il punto fondamentale è questo: uscire dagli accordi di Parigi non significa uscire dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite, l'accordo da cui è nata la Cop. Tutto sommato, gli accordi di Parigi contengono dei vincoli piuttosto blandi, fatti in modo che gli Stati Uniti potessero aderire: soprattutto, affermano la necessità che ciascun paese faccia i suoi sforzi contro la crisi climatica, in quanto negli anni '90 gli Stati Uniti si sono costantemente opposti al principio per cui fossero soltanto i Paesi sviluppati a impegnarsi.
Queste sono le cattive notizie?
Chiaramente, se gli Stati Uniti continuano a svincolarsi e a uscire da accordi e trattati, anche gli altri Paesi potrebbero sentirsi meno vincolati a impegnarsi, creando una sorta di effetto domino. Inoltre, l'uscita degli Stati Uniti potrebbe diventare una sorta di capro espiatorio, per cui ogni volta che non verranno raggiunti gli obiettivi climatici, i Paesi interni agli accordi potrebbero giustificarsi e attribuire all'assenza degli Stati Uniti la colpa di eventuali fallimenti.
E le buone notizie?
Il mondo di oggi è completamente diverso da com'era negli anni '90 o nel primo decennio del 2000. Ormai la tecnologia per compiere transizione è molto più avanti: questo significa che questi settori che prima avevano bisogno di sussidi, come l'eolico e il solare, oggi sono completamente competitivi rispetto ai combustibili fossili. In poche parole, la transizione è un processo ormai avviato e inevitabile, a prescindere dalle decisioni politiche. Basta guardare all'esempio della Cina: nel 2023 ha installato più impianti solari ed eolici di Stati Uniti e Ue messi e insieme. Non lo ha fatto tanto per, ma perché conviene.
In che senso la transizione energetica conviene. Può spiegarci meglio?
Ovviamente in una minima parte la costruzione di questi impianti è stata finanziata con sussidi, ma il 90% della riduzione dei costi di eolico e solare si deve alle forze di mercato. Quest'evoluzione non può essere evitata nemmeno da Trump, anzi se vorrà mettere davvero in pratica i suoi proclami dovrà fare i conti con ostacoli enormi: le sue promesse di puntare sui combustibili fossili si scontrano con la realtà dei fatti. Negli Stati Uniti ad esempio le persone che lavorano nel settore green sono ormai di più di quelle assunte nelle aziende legati ai fossili. È completamente cambiato il quadro in cui ci muoviamo.
Allora cosa può fare Trump?
È chiaro che le decisioni di Trump possono avere un peso nel rallentare questo percorso e favorire i fossili. Ma il punto più interessante è proprio questo: quando Trump dice di voler aumentare la produzione del fossile dimostra grave ignoranza rispetto al funzionamento del mercato. I produttori di combustibili fossili non vogliono produrre di più, perché questo significherebbe un abbassamento del prezzo del loro prodotto. Questo potrebbe essere risultare forse appetibile per i consumatori, ma non certo per i produttori. In sostanza, il volume di combustibili fossili prodotti dagli Stati Uniti dipenderanno più dalla domanda mondiale di petrolio e dalle regole di mercato che dai proclami di Trump.
Torniamo al possibile effetto domino. Cosa potrebbe succedere?
Se gli Stati Uniti escono dall'accordo di Parigi non metteranno più i soldi per la finanza climatica, ovvero le risorse che i paesi più sviluppati devono stanziare ai paesi più vulnerabili agli effetti della crisi climatica. Ci saranno quindi chiaramente meno risorse da usare. Ma questo non credo si possa attribuire solo a Trump. Pensiamo all'Europa, alle elezioni di giugno i verdi hanno perso molti seggi a vantaggio dei partiti scettici sul clima o che comunque antepongono business alle tematiche inerenti al clima.
Come si spiega questo fenomeno?
Appare evidente che stiamo vivendo un'ondata di retro front in fatto di ambiente che non riguarda solo gli Stati Uniti, ma il mondo intero. E non sarebbe cambiato nulla nemmeno se non fosse stato eletto Trump, ma Biden. Certo l'elezione di Trump complica ulteriormente le cose sulla finanza climatica, ma questo non potrà comunque bloccare la transizione perché è un processo ormai in atto ovunque, anche nei paesi emergenti.