Attila non era il “flagello di Dio”: svelata la possibile causa degli attacchi all’Impero Romano
Attila, condottiero degli Unni nel corso del V secolo dopo Cristo, è stato dipinto come uno dei sovrani più spietati e feroci dell'antichità, capace di devastare territori e annientare intere popolazioni dopo il passaggio delle sue orde barbariche. Non a caso si ritiene che la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, avvenuta nel 476 d. C., sia stata catalizzata proprio dai costanti attacchi perpetrati dai barbari lungo le vastissime frontiere romane, passati alla storia come “invasioni barbariche”. Un nuovo studio, tuttavia, suggerisce che a scatenare Attila non fu la sete di potere e conquista, bensì una drammatica siccità che colpì l'area dell'attuale Ungheria e oltre tra il 420 e il 450 dopo Cristo. Particolarmente colpito fu il bacino dei Carpazi. Il fenomeno climatico fu talmente catastrofico per gli Unni – giunti in Europa dalla Siberia meridionale nel IV secolo – che intere comunità di nomadi e pastori si trasformarono in predoni per pura sopravvivenza, prendendo d'assalto le ricche province romane.
A determinare le possibili ragioni che spinsero i barbari guidati Attila ad attaccare l'Impero Romano sono stati i due scienziati Susanne E. Hakenbeck e Ulf Büntgen, rispettivamente del Dipartimento di Archeologia e del Dipartimento di Geografia della prestigiosa università britannica di Cambridge. I due studiosi sono giunti alle loro conclusioni dopo aver messo a punto una ricostruzione idroclimatica dell'epoca a partire dai dati raccolti dagli anelli degli alberi, combinati con altre informazioni di tipo archeologico, ambientale e storico. Secondo i due studiosi gli intensi periodi di siccità vissuti nel trentennio compreso tra il 420 e il 450 d.C. furono il volano delle grandi migrazioni delle tribù barbariche, alla base del già citato crollo dell'Impero Romano d'Occidente.
“I dati sugli anelli degli alberi ci offrono una straordinaria opportunità di collegare le condizioni climatiche all'attività umana anno dopo anno. Abbiamo scoperto che i periodi di siccità registrati nei segnali biochimici negli anelli degli alberi hanno coinciso con un'intensificazione dell'attività di incursione nella regione”, ha dichiarato in un comunicato stampa il professor Büntgen. I ricercatori hanno condotto anche analisi isotopoche sugli scheletri dell'epoca, rilevando che le comunità furono costrette anche a cambiare dieta a causa dell'anomalo evento climatico, combinando prodotti della pastorizia e dell'agricoltura. “Se la scarsità di risorse divenne troppo estrema, le popolazioni stanziali potrebbero essere state costrette a spostarsi, diversificare le loro pratiche di sussistenza e passare dall'agricoltura all'allevamento nomade di animali”, ha spiegato la professoressa Hakenbeck.
Secondo i due studiosi le invasioni nelle province dell'Impero Romano dunque non furono innescate dalla brama di oro e conquista, come normalmente raccontato, ma dalla necessità di avere territori fertili per allevare il bestiame, cibo, acqua e altre risorse per sopravvivere. Le incursioni più devastanti degli Unni sarebbero avvenute proprio durante le estati più secche, nel 447, nel 451 e nel 452 dopo Cristo, come indicato dagli scienziati. Queste incursioni forse modificarono anche l'organizzazione sociale degli Unni e gli eserciti di Attila – morto nel 453 dC – riuscirono a spingersi sin nella Gallia e nell'Italia Settentrionale. Al suo apice l'impero nomade comandato dal “flagello di Dio” era di ben 4 milioni di chilometri quadrati. Ovviamente Attila è stato dipinto come uno spietato sovrano dagli “invasi”, ma forse tutto nacque a causa di una catastrofe climatica, come quella che ci sta investendo adesso. I dettagli della ricerca “The role of drought during the Hunnic incursions into central-east Europe in the 4th and 5th c. CE” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica specializzata Journal of Roman Archaeology.