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La NASA ha inviato topi per 37 giorni nello spazio e ha fatto una scoperta sconvolgente sui loro corpi

Se l’umanità vorrà continuare a sopravvivere, un giorno dovrà diventare una specie multiplanetaria. Ma le scoperte sugli effetti del volo spaziale sul corpo continuano a essere scoraggianti. Ecco cosa è successo ad alcuni topi inviati dalla NASA sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS) per 37 giorni.
A cura di Andrea Centini
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Il volo spaziale in microgravità è noto per avere effetti significativi sul corpo umano, proporzionali alla durata della permanenza in orbita. In altri termini, più tempo si trascorre “fra le stelle”, peggiori sono le conseguenze. Gli astronauti che trascorrono molti mesi nello spazio, come accaduto recentemente a Suni Williams e Butch Wilmore della Boeing Starliner, sperimentano ad esempio perdita di densità ossea e massa muscolare, piedi da bambino, temporaneo aumento dell'altezza, viso gonfio, alterazioni alla vista e al cervello, disturbi al sistema vestibolare e molto altro. Il nostro organismo, adattato alla gravità terrestre, subisce una progressiva atrofia di determinati tessuti in microgravità, oltre allo spostamento verso l'alto dei fluidi corporei con ulteriori conseguenze.

La nostra conoscenza sugli effetti del volo spaziale è ad oggi ancora molto limitata, per questo motivo gli scienziati, oltre a raccogliere dati preziosissimi dal lavoro degli astronauti, continuano a condurre esperimenti ad hoc sulla Terra e nello spazio. Come quello dell'ESA che ha offerto 5.000 euro per rimanere sdraiati 10 giorni oppure l'invio di modelli animali. Uno degli ultimi esperimenti, condotto da ricercatori della Space Biosciences Division del NASA Ames Research Center, ha fatto una scoperta sconvolgente su alcuni topi inviati sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS).  I risultati gettano un'ombra sull'impatto dei lunghi viaggi spaziali e sull'ambizione di diventare una specie multiplanetaria. Basti sapere che una missione su Marte tipica potrebbe durare circa 3 anni, ben più delle missioni standard semestrali sulla ISS. Inoltre la Terra è destinata a essere distrutta dal Sole, che non è eterno. Pertanto, se l'umanità vorrà sopravvivere, dovremo necessariamente trasferirci altrove. Ma saremo in grado di farlo e sopravvivere alle condizioni estreme dello spazio? Alcuni studi, come quello sui topi, suggeriscono che i rischi siano elevatissimi.

Gli scienziati guidati dal dottor Rukmani Cahill hanno osservato gli effetti sulle ossa dei topi tenuti per 37 giorni sulla ISS, constatando che i loro femori si erano riempiti di enormi buchi, con perdita di midollo osseo e tessuto spugnoso. Le parti più danneggiate erano quelle nei pressi dell'articolazione dell'anca (testa e collo del femore) e quelle vicine all'articolazione del ginocchio, tra cui i condili femorali e la fossa intercondilare. Altre ossa sembravano aver preservato meglio la densità minerale e la struttura ossea. Com'è noto da diversi studi, gli astronauti perdono decenni di massa ossea, l'1 percento o più ogni mese, con un tasso di riduzione che è dieci volte superiore rispetto a quello dell'osteoporosi sulla Terra. L'osso che si riforma una volta rientrati sulla Terra può presentare una microarchitettura differente e si ritiene che alcuni individui non riescano mai a riprendersi del tutto, nonostante tutti gli esercizi e l'attività fisica svolti sulla ISS per ridurre al minimo l'atrofia muscolare e la perdita minerale delle ossa.

A sinistra i grandi buchi sulle ossa emersi nei femori dei topi inviati nello spazio, a destra quelli sui topi del gruppo di controllo tenuti sulla Terra. Credit: Cahill et al / PLoS ONE
A sinistra i grandi buchi sulle ossa emersi nei femori dei topi inviati nello spazio, a destra quelli sui topi del gruppo di controllo tenuti sulla Terra. Credit: Cahill et al / PLoS ONE

I ricercatori ritengono che i topi abbiano sviluppato questi impressionanti buchi nei femori perché sono le zampe a sostenere il peso del corpo, mentre nell'essere umano bipede è la colonna vertebrale a sopportare il peso della parte superiore. Nei topi, infatti, è stato osservato che la porzione lombare della colonna vertebrale era rimasta integra. Gli autori dello studio ritengono dunque che siano proprio le ossa responsabili del sostegno del peso a subire la degradazione peggiore. Inoltre, i ricercatori sostengono che non siano le radiazioni a catalizzare questa perdita ossea, poiché il deterioramento si verifica dall'interno verso l'esterno (il contrario di quanto avverrebbe se le radiazioni avessero un ruolo significativo). Un altro effetto rilevante è stato osservato nei topi giovani ancora in fase di accrescimento: segni di ossificazione prematura, con la cartilagine trasformata in osso prima del tempo e conseguente arresto dello sviluppo.

Credit: Cahill et al / PLoS ONE
Credit: Cahill et al / PLoS ONE

In molti film e opere di fantascienza si immaginano arche piene di esseri umani che abbandonano la Terra verso una meta ignota, destinati a viaggiare per generazioni nello spazio prima di giungere a una nuova casa. Ora immaginate gli effetti osservati nei topi giovani sui neonati nati sulle astronavi o sui bambini che dovrebbero garantire la prosecuzione della nostra specie in mondi lontani; è facile intuire che non finirebbe per niente bene. Se a tutto questo aggiungiamo gli spaventosi danni renali osservati da un nuovo studio – tali da rendere necessaria la dialisi per chi riesce a tornare da Marte – e le mutazioni associate a cancro (soprattutto all'intestino) e le malattie cardiovascolari, le premesse per diventare davvero una specie multiplanetaria risultano poco incoraggianti. Anche la conquista del Pianeta Rosso potrebbe essere molto più problematica di quanto spesso venga lasciato intendere; non a caso l'obiettivo di raggiungere Marte viene continuamente posticipato di 15 anni. In sostanza, abbiamo bisogno di tecnologie rivoluzionarie che proteggano la nostra salute. I dettagli del nuovo studio, intitolato “37-Day microgravity exposure in 16-Week female C57BL/6J mice is associated with bone loss specific to weight-bearing skeletal sites”, sono stati pubblicati sulla rivista scientifica PloS ONE.

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