In Afghanistan, dove la guerra non è mai finita
La storia dell'Afghanistan, almeno per quanto riguarda gli ultimi decenni, è talmente intrisa di violenze, soprusi, invasioni, guerre che l'ultima in ordine cronologico che ha portato le truppe occidentali su quel territorio martoriato ormai dieci anni fa, sembra collocarsi in maniera quasi naturale lungo una scia di sangue e dolore di cui è impossibile prevedere la fine, al momento. Nessuno ha davvero pensato che i bombardamenti USA avrebbero mai potuto risollevare le sorti di quel paese né, tanto meno, il governo-fantoccio di Hamid Karzai ha mai convinto qualcuno.
Così oggi, a più di dieci anni di distanza, ci si ritrova ancora una volta a contare le macerie di un paese distrutto nel corso dei decenni dalla bestialità dell'uomo, travestita prima da invasore sovietico che combatteva contro i mujaheddin che godevano dell'appoggio degli Stati Uniti fino alla fine degli anni '80, poi sotto le spoglie dei talebani, che applicarono la shari'a, nullificando di fatto i significativi progressi verso cui si erano avviati i governi democratici degli anni '70, infine giunta dalla lontana America, con un bombardamento aereo iniziato la sera del 7 ottobre del 2001.
Quella che è la vita reale in Afghanistan non ha niente a che vedere con le poche e frammentarie notizie che riceviamo di tanto in tanto, quando un nostro connazionale militare perde la vita; quella è solo una microscopica finestra su un paese stremato, guidato dal governo più corrotto del mondo e che, con l'80% della propria popolazione che vive al di sotto del livello di povertà, può dirsi anche il più indigente del pianeta. Difficile, davvero, immaginare quali potrebbero essere stati i margini di miglioramento in questi ultimi dieci anni e, soprattutto, se sono anche in minima parte riconducibili all'arrivo delle truppe NATO.
Quei progressi culturali, che una parte del paese probabilmente aspettava con ansia, altro non sono se non la risposta di un popolo che sta cercando, lentamente la propria strada e che può e vuole costruire un'alternativa alla violenza dei talebani ma anche alla corruzione di Karzai: donne che finalmente possono vedere la luce del sole non filtrata dalla rete a maglie strette del burqa, fanciulle che si recano a scuola ed una nuova classe che pensa e che vuole liberarsi, ora, dall'invasore.
C'è Hambastagi, Solidarity Party of Afghanistan, il movimento progressista di formazione laica che, pur non essendo presente nel parlamento di Kabul, si batte per i diritti delle donne, dei lavoratori e contro l'integralismo religioso; un partito che vuole dire il suo no all'occupazione americana e ai suoi fantocci afghani e che il 6 ottobre è sceso coraggiosamente in piazza a gridarlo. Per le strade della capitale afghana anche le donne, molte ancora coperte, altre con il volto in mostra ma, ad ogni modo, bisognose di esprimere il proprio bisogno di dignità e di libertà: le loro condizioni non sono certamente cambiate di molto da dieci anni a questa parte, soprattutto se si considera che gli Stati Uniti hanno fatto in modo di collocare nelle posizione di potere magari non i talebani ma comunque «assassini le cui mani sono macchiate del sangue della nostra gente» come recita un documento pubblicato dal partito pochi giorni fa.
Attualmente l'Afghanistan è il maggior produttore di droga al mondo e questo, probabilmente, è l'unico primato attribuibile a dieci anni di invasione straniera che hanno comportato fiumi di dollari in arrivo raramente reinvestiti in progetti per la ricostruzione di una terra in cui mancano le infrastrutture fondamentali. Quel che è peggio è che la zona, come ben sappiamo, resta totalmente militarizzata: «Con il controllo completo di tutte le arterie economiche vitali del paese, gli Stati Uniti stanno anche alimentando con il loro pattume culturale la nostra gente. L'America porta via l'identità nazionale e l'orgoglio dei giovani, cancellando le forze che lottano per il paese, promuovendo la neutralità e l'immoralità culturale attraverso rifornimenti di dollari, ONG, borse di studio e posizioni di potere» dice il documento: le parole di un Afghanistan fortemente laico e maturo per appropriarsi della propria libertà, senza rinunciare all'identità, privato della quale, qualunque paese non può sopravvivere. Forse è una piccola minoranza ma c'è e merita di trovare una strada, in quel paese devastato.