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Opinioni

Il referendum, Trump, la Brexit: il 2016 è stato l’anno della rabbia

In tutto il mondo si vota per rabbia contro l’establishment. È successo in Europa, in America, in Italia. È il rifiuto di un sistema economico che produce diseguaglianze. E per cui nel 2017 serviranno risposte sociali concrete.
A cura di Michele Azzu
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“Addio 2016 e a mai più rivederci”, sono tante le persone che sui social media si apprestano a salutare questo maledetto anno con ironia, tristezza, paura e tanta rabbia. Sperando che non tornino più dodici mesi come quelli che finiscono in questi giorni. Che non si ripetano più tutti questi attentati terroristici, la guerra in Siria, il dramma dei rifugiati nel Mediterraneo. Le marce dei profughi in Europa con la speranza di venire accolti, e poi la giungla di Calais, le violenze al confine con l’Ungheria.

Il 2016 è stato un anno pieno di paura. E forse ancora più di rabbia, reazione a un’ansia globale sempre più grande. La risposta emotiva al terrorismo, alla povertà in crescita, alla disoccupazione, alle aggressioni razziste. È nel segno di questa rabbia che quest’anno è cambiato il mondo. Un anno fa Donald Trump scendeva dalla scala mobile della Trump Tower per annunciare la sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti, deriso da giornalisti e politici di tutto il mondo.

Un anno fa si riteneva ancora impensabile che il Regno Unito sarebbe uscito dall’Unione Europea, e David Cameron era alla guida di un governo britannico eletto da pochi mesi con una solida maggioranza. Sempre un anno fa, Matteo Renzi era alla guida del governo e raccontava proprio nei giorni di fine anno come il Jobs Act avesse creato un milione e mezzo di posti di lavoro, il successo dei primi restauri a Pompei, e quel capolavoro della variante di valico nell’autostrada Firenze-Bologna.

Poi è arrivato il 2016. Iniziato malissimo, con gli attentati terroristici di Bruxelles, di Nizza e della Germania. A giugno, il 52% degli elettori nel Regno Unito ha deciso davvero di voler lasciare l’UE. David Cameron si è dovuto dimettere, e al suo posto è salita in carica la xenofoba leader conservatrice Theresa May, la “nuova Thatcher” anti immigrati, che in pochi mesi ha annunciato il possibile licenziamento dei medici europei nel Regno Unito, e l’ipotesi che le aziende debbano stilare delle liste per identificare i dipendenti stranieri.

Lo scorso novembre, Donald Trump è diventato il nuovo presidente eletto degli USA. Ha promesso di costruire un muro al confine con il Messico, per fermare l’odiata immigrazione clandestina. Anche lui, come il premier britannico, aveva annunciato di voler chiedere alle aziende del paese di compilare dei registri, ma in questo caso nei riguardi dei dipendenti musulmani, che il neo presidente repubblicano voleva addirittura fermare all’ingresso nel paese durante la campagna elettorale.

Nel 2016 ha vinto la politica globale dell’odio, portata al potere dalla rabbia dei nuovi poveri fomentati dalle peggiori campagne elettorali e referendarie di sempre. Rabbia, ad esempio, con cui gli stati della “cintura di ruggine” americana, dove le fabbriche hanno chiuso da anni, si sono schierati contro l’establishment rappresentato da Hillary Clinton e hanno votato in maggioranza per Trump. La stessa rabbia con cui i britannici hanno chiesto di “riprendere il controllo” delle proprie leggi, dei propri confini, dei propri posti di lavoro contro l’establishment dell’odiata Unione Europea.

In Italia, come sappiamo bene, solo pochi giorni fa il 60% degli elettori ha deciso di mandare a casa Matteo Renzi col rifiuto della sua riforma costituzionale. A pesare sul voto la rabbia dei giovani e del sud Italia, dove le condizioni di vita e di lavoro sono ogni anno peggiori. Fra i giovani la disoccupazione oscilla sempre attorno al 40%, fra le più alte in Europa, mentre l’OCSE rileva che l’81% dei giovani italiani fino ai 29 anni vive a casa dei genitori. Il rischio povertà nel nostro paese coinvolge 17 milioni di persone secondo l’ultimo rapporto Istat.

E così, una volta conclusi i primi effetti positivi degli sgravi fiscali alle aziende sulle assunzioni del 2015, ecco che si è spenta anche la speranza che le cose potessero cambiare. La crescita dei contratti indeterminati è crollata, mentre sono cresciuti in maniera esponenziale i voucher, creando una dimensione di precariato ancora più profonda di prima. In compenso, nonostante la rabbia di questo voto, Giuliano Poletti è rimasto al ministero del lavoro, e ora si permette anche di dire che i giovani che emigrano, o almeno alcuni di loro, dovrebbero levarsi dai piedi.

In molti casi, infatti, la rabbia della gente è stata alimentata da pessimi governi, che negli ultimi anni non solo non sono stati in grado di mettere riparo alla crescita delle diseguaglianze, alla crisi e al dramma dei giovani poveri. Ma hanno continuato imperterriti a salvare le banche, a tagliare le tasse alle grandi imprese, a trattare per i grandi interessi dei TTIP. Hanno continuato ad arricchire l’establishment, e cioè tutto ciò che oggi l’opinione pubblica odia – in un calderone che può comprendere i politici, i media, i sindacati, fino ad arrivare a chi ha semplicemente un contratto di lavoro garantito come oggi non ne esistono più.

Ma oltre i fattori delle politiche e dei governi nazionali, più di tutto il 2016 ha decretato il fallimento delle ricette economiche e sociali che fino a qui ci hanno portato. La “fine della storia”, arrivata con la caduta del muro di Berlino nel 1989 e il crollo dell’Unione Sovietica, è a sua volta finita quest’anno. Al paradigma economico per cui il libero mercato globale avrebbe continuato a portare benessere, istruzione e mobilità sociale per la maggioranza dei cittadini, ormai non crede più nessuno.

Il meccanismo si è rotto, e i frammenti sono divisi fra l’1% ricchissimo della popolazione mondiale, i politici, i media, l’establishment da una parte, e dall’altra il 99% dei poveri, dei giovani, dei disoccupati, di chi lavora ma non guadagna abbastanza da pagarsi l’affitto, chi ha la laurea e lavora come fattorino in nero. E ancora, chi fa tirocinio dopo tirocinio gratis o per pochi soldi, chi sa già che anche pagando i contributi non avrà mai la pensione, chi lavora in una fabbrica che è stata chiusa per delocalizzare mentre il governo e gli enti locali non facevano nulla.

Per tutte queste persone non ci sono più risposte, soluzioni, organismi a cui rivolgersi per chiedere aiuto. E così cresce la rabbia. Che non avendo risposte sui diritti, sul welfare, sul lavoro, trova l’unica valvola di sfogo nelle soluzioni di destra. Contro l’immigrazione, contro l’Europa, contro gli altri stati, contro i musulmani. Secondo un recente studio condotto da YouGov e riportato da BuzzFeed, che ha coinvolto 12.000 intervistati in tutta l’UE, circa metà degli adulti europei condivide idee di estrema destra, nazionaliste, anti immigrati e xenofobe. Non è un caso, allora, che il 2016 sia stato un anno anche ricco di aggressioni razziste nel Regno Unito dopo la Brexit, in Italia e negli USA dopo l’elezione di Trump.

Quello che spaventa è come la rabbia, per quanto giustificata, stia portando sempre più spesso a decisioni politiche di carattere irrazionale, emotive, senza basi economiche o sociali, insomma senza vere riposte ai drammi dei nostri tempi. È il caso della Brexit, ad esempio, dove una nazione ha deciso coscientemente di incorrere in futuri danni economici in cambio dell'illusione di poter riprendere il controllo della propria sovranità. Del resto, il 2016 è stato anche l’anno della post-verità, la nuova dottrina politica per cui non è più necessario affidarsi ai fatti e ai numeri nelle campagne politiche.

Basta mentire e garantire soluzioni alla rabbia delle persone. Ma così facendo, nel 2016 abbiamo perso di vista qualcosa sulla strada dell’emotività e della paura. L’Unione Europea, ad esempio, la nostra risposta al male del nazismo, delle guerre mondiali e della bomba atomica è ora in forte crisi politica, e non basterà punire il Regno Unito con una Brexit “dura” per fare tornare indietro le lancette della storia, ai primi anni 2000 quando ancora si pensava che l’UE e la valuta unica avrebbero potuto milgiorare le condizioni di vita dei cittadini e dei lavoratori.

Ora l’UE è in crisi, e con Trump alla presidenza e Regno Unito e Italia nel caos politico, si allunga l’ombra di Putin nello scacchiere geopolitico internazionale. Ancora, la paura. Della guerra in Siria, della strage di civili e bambini ad Aleppo, degli attacchi hacker russi contro i partiti americani che avrebbero favorito l’elezione di Trump, secondo quanto sostiene la CIA. E ancora, la paura del controllo totale, di nuovi scandali simili a quello dell’NSA americano, dell’’utilizzo dei nostri dati sui social media e della diffusione dei droni nelle strade delle nostre città.

Se nel 1989 il crollo del muro di Berlino aveva aperto l’orizzonte della speranza in un futuro migliore per tutti, il 2016 ha buttato giù troppi muri nelle nostre difese contro il male di cui siamo capaci. Sono venute meno le nostre difese contro il razzismo, contro l’odio, contro la tutele delle minoranze etniche, di genere, religiose. Eppure non è stato tutto un male quello che è successo nel 2016. Ad esempio, a Parigi si è firmato un accordo storico per il contenimento del riscaldamento globale (anche se ora Trump minaccia di farlo saltare).

Sono venuti alla luce leader politici di sinistra come Bernie Sanders in America e Jeremy Corbyn in Inghilterra, che hanno ottenuto un grande consenso all’interno dei propri partiti democratici con proposte radicali sul welfare, sul lavoro, sui diritti. I giovani in particolare sembrano essere grandi sostenitori di nuove politiche di sinistra. A loro spetta il compito di fermare l’avanzata della paura, della rabbia. A loro il compito che quanto accaduto nel 2016 finisca assieme agli ultimi giorni di questo maledetto anno. E a mai più rivederci.

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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