La vendita di un bene altrui è regolata dal codice civile, in particolare l'art. 1478 c.c. il quale dispone che "Se al momento del contratto la cosa venduta non era di proprietà del venditore, questi è obbligato a procurarne l'acquisto al compratore. Il compratore diventa proprietario nel momento in cui il venditore acquista la proprietà dal titolare di essa".
All'interno dell'istituto della vendita di bene altrui si distingue tra vendita espressamente dichiarata di bene altrui e vendita espressamente dichiarata di bene altrui.
In caso di vendita di bene altrui "dichiarata", il venditore dichiara, in modo chiaro ed espresso, all'acquirente che il bene non è di propria proprietà, ma è di proprietà di un terzo e, contemporaneamente, si obbliga ad acquisire la proprietà del bene dal proprietario reale per poi trasferire il bene all'acquirente. Tralasciando gli aspetti tecnici relativi alla natura giuridica di questo istiuto (vendita sotto condizione dell'acquisto, vendita con effetti obbligatori immediati ed effetti reali differiti) occorre porre l'attenzione su due elementi: 1) le parti contrattuali (soprattutto l'acquirente) sono consapevoli che il bene non è attualmente di proprietà del venditore 2) la giurisprudenza è giunta alla conclusione che il venditore adempie alla sua obbligazione di far acquistare il bene all'acquirente, sia se ottiene dal proprietario attuale una semplice procura a vendere, sia se fa stipulare il contratto direttamente tra acquirente e terzo proprietario del bene, 3) sia con lo schema classico previsto dall'art. 1478 c.c. acqusito del bene dal terzo proprietario per poi (ri)trasferirlo all'acquirente.
Nulla, però, esclude che il venditore di bene altrui non dichiari, in modo espresso e chiaro, di non essere il reale proprietario, ma, al contrario, nasconde la cirocstanza di non essere il vero proprietario del bene, cioè nasconde che il bene è di proprietà altrui (anzi si potrebbe anche verificare che il venditore ponga in essere una serie di operazioni o atti che fanno apparire il venditore come il reale proprietario del bene). Per meglio distinguere tra vendita di bene altrui dichiarata e non dichiarata basta far riferimento ad una famosa scena di un film in cui Totò vende la fontana di Trevi (trattasi di vendita di bene altrui non dichiarata). Considerando con attenzione la scena del film si nota che esiste un aspetto civile (il contratto di vendita della fontana ) e un aspetto penale (la truffa), apparentemente potrebbe sembrare illogico che il legislatore regoli e disciplini un contrattto (la vendita di bene altrui) che potrebbe rientrare sempre (o quasi sempre) nell'illecito penale, ma, in realtà, la risposta è semplice perchè non sempre la vendita di bene altrui coincide (o integra) gli espremi dell'illecito penale o del reato penale. In mancanza degli estremi del reato penale la vendita di un bene altrui (anche se non dichiarata) darà vita dall'azione di inadempimento (cioè l'acquirente di un bene altrui si potrà tutelare con la risoluzione del contratto per inadempimento). Risulta evidente che, almeno nel caso della vendita della fontana di trevi, si rientra, in pieno, nel campo penale, soprattutto quando (facendo credere di essere il proprietario) viene richiesta ed incassata una caparra di notevole valore o l'intero prezzo o una parte di questo (acconto).
La situazione non cambia se, invece, di stipulare un contratto definitivo, si stipula un preliminare (incassando un acconto del prezzo o una caparra), così come la situazione non cambia se il sedicente proprietario opera tramite un rappresentante (poichè in tal caso ci potrebbe essere il concorso nel reato).
Il motivo di questa ricostruzione sulle differenze tra vendita (dichiarata) di bene altrui e vendita (non dichiarata) di bene altrui non è fine a se stesso, ma serve per mettere in rilievo il fatto che mentre in vendita non dichiarata di bene altrui si può facilmente cadere nell'illecito penale, la cosa non è altrettando certa nell'ipotesi di vendita di bene altrui dichiarata, però, occorre chiedersi se la vendita dichiarata di bene altrui possa integrare l'illecito penale. La risposta sembra essere positva soprattutto quanto i venditori, pur dichiarando di vendere un bene altrui, fanno credere all'acquirente che sia tutto a posto anche mostrando documenti (titoli di proprietà) tali da faar credere di essere i reali proprietari
La sentenza della Cassazione, benchè redatta in modo "sintetico" è interessante perchè a) il procedimento penale è contemporaneo al procedimento civile "per inadempimento al preliminare"; b) fa comprendere come l'inadempimento ad un contratto non ha solo "rilevanza" civile e non è vero che non ha nessuna "rilevanza" penale; c) la vendita di un bene altrui (dichiarata) può integrare il reato di truffa consistente proprio nella falsa rappresentazione della piena proprietà e dall'aver incassato (e non restituito) una caparra di notevole entità, senza far conseguire la proprietà del bene all'acquirente, (non adempiendo, cioè, ai propri obblighi, se il venditore fa credere che sia "tutto a posto" all'acquirente
Cassazione, pen. sez. II, del 26 luglio 2012, n. 30686
Ritenuto in fatto
1.1) B.G. , M.A. ricorrono per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di condanna di entrambi gli imputati per concorso nel reato di truffa ex art. 640 cp, aggravata ex art. 61 n. 7 cp, perché il B. quale sedicente proprietario ed il M. quale procuratore del B. , con artifici e raggiri consistiti nella falsa rappresentazione della piena proprietà dell’immobile oggetto del preliminare, inducevano in errore I.M. che versava a titolo di caparra l’importo di Euro 130.000 senza conseguire il diritto di proprietà sul bene oggetto del preliminare;
Fatti del (…) , con la recidiva specifica e reiterata per B. ;
2.0) – Motivi ex art. 606, 1 co. lett. b), e) c.p.p.. B. :
2.1) – Nullità della sentenza per avere ritenuto la penale responsabilità del ricorrente senza considerare:
– che mancava l’estremo del raggiro atteso che, al di là dell’improprio termine “proprietario” menzionato dal B. nell’atto, nello stesso contratto si affermava in maniera chiara che il bene era intestato al sig. Ma.Bu. come emergeva dall’atto notarile di provenienza;
– che, in ogni caso, il B. aveva titolo per vendere l’immobile, avendone successivamente conseguita la titolarità in data (…) in virtù dell’arbitrato che lo riconosceva proprietario dell’unità immobiliare;
– che era erronea la considerazione della Corte di appello, nella parte in cui aveva sottolineato come l’illiceità del comportamento del B. discendeva dal non avere restituito la caparra, atteso che la corte del merito non aveva considerato adeguatamente che era in corso un giudizio per l’adempimento del preliminare da entrambi le parti, sicché la trattativa poteva concludersi favorevolmente per tutte le parti stesse;
– che non era dimostrata la sussistenza dell’aggravante ex art. 61 n. 7 cp che andava rapportata al patrimonio della parte contraente.
M. :Il ricorso è infondato
3.1) – Il B. deduce che la Corte di appello non avrebbe considerato la sua buona fede, ma trascura di considerare la precisa motivazione della Corte territoriale che sottolinea:
– I) – che gli imputati avevano serbato il silenzio malizioso nei confronti dell’I. ;
– II) – che, difatti, lo avevano rassicurato sulla piena proprietà dell’immobile in capo al B. e, al riguardo, avevano sottoposto alla parte offesa il rogito del notaio D. ed il preliminare di vendita tra Bu. e M. , così ponendo in essere gli artifici e raggiri per fare credere alla parte offesa che era tutto a posto;
– III) – che, in ogni caso, non avevano restituito il denaro percepito a titolo di acconto, evidenziando così la piena sussistenza del dolo sin dal primo tempo.
3.2) -Si tratta di una valutazione in fatto del tutto congrua, aderente alle emergenze di causa ed esente da illogicità manifesta tale da risultare non censurabile in questa sede, ove il giudice di legittimità non è chiamato a sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine alla affidabilità delle fonti di prova, essendo piuttosto suo compito stabilire – nell’ambito di un controllo da condurre direttamente sul testo del provvedimento impugnato – se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se ne abbiano fornito una corretta interpretazione, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, se abbiano analizzato il materiale istruttorio facendo corretta applicazione delle regole della logica, delle massime di comune esperienza e dei criteri legali dettati in tema di valutazione delle prove, in modo da fornire la giustificazione razionale della scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre, Cassazione penale, sez. IV, 29 gennaio 2007, n. 12255
3.3) – Le argomentazioni dei ricorrenti sulla circostanza che, successivamente, il B. avrebbe acquisito il titolo per cedere il bene sono state correttamente ritenute irrilevanti, riguardando fatti posteriori alla stipula del contratto preliminare ed anche infondate atteso che il B. non ha mai adempiuto agli obblighi assunti con l’I.
Deve perciò ritenersi corretta la ricostruzione dei fatti così come compiuta dalla Corte di Appello che risulta ineccepibile sia sul piano fattuale che su quello giuridico, atteso che in materia di truffa contrattuale, anche il silenzio, maliziosamente serbato su alcune circostanze rilevanti sotto il profilo sinallagmatico da parte di colui che abbia il dovere di farle conoscere, integra l’elemento oggettivo del raggiro, idoneo a determinare il soggetto passivo a prestare un consenso che altrimenti avrebbe negato. (Cassazione penale, sez. II, 11/10/2005, n. 39905) ed atteso che ai fini della sussistenza del reato di truffa, l’idoneità dell’artificio e del raggiro deve essere valutata in concreto, ossia con riferimento diretto alla particolare situazione in cui è avvenuto il fatto ed alle modalità esecutive dello stesso; tale idoneità non è perciò esclusa dall’esistenza di preventivi controlli, né dalla scarsa diligenza della persona offesa nell’eseguirli, quando, in concreto, esista un artificio o un raggiro posto in essere dall’agente e si accerti che tra di esso e l’errore in cui la parte offesa è caduta sussista un preciso nesso di causalità. (Cassazione penale, sez. V, 27/03/1999, n. 11441).
3.4) – Del tutto infondato è il motivo sull’aggravante ex art. 61 n.7 cp, atteso che ai fini della sussistenza della circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità (art. 61 n. 7, cp), preliminare e decisivo è l’esame dell’oggettiva rilevanza economica del danno, desunta essenzialmente dal livello economico medio della comunità sociale nel momento storico, in cui il reato viene commesso, indipendentemente dalla consistenza patrimoniale del danneggiato: principio che vale “a fortiori” in presenza di un valore economico di autoevidente oggettiva rilevanza, come nella specie. (Cassazione penale, sez. IV, 23/06/2011, n. 27741).