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Il potere magnetico di ‘Springsteen on Broadway’ su Netflix che ci inchioda allo schermo

Il documentario ‘Springsteen on Broadway”, tratto dallo spettacolo in onda su Netflix, è molto più di un film. È una manuale di estetica sul significato dell’arte illustrato da Bruce Springsteen in persona a partire dalla sua autobiografia “Born to run”. In attesa che nel 2019 il Boss esca dallo schermo e ritorni su un palco.
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Non un documentario, non uno spettacolo, né un disco. ‘Springsteen on Broadway' in onda su Netflix dal 16 dicembre è di più, molto di più: è un atto di stregoneria del Boss – l'ennesimo – sull'esercito dei suoi fan. Stavolta non dal vivo, ma con una liturgia offerta comodamente seduti sul divano. Sono una vera e propria calamita per gli sguardi queste due ore e mezzo di documentazione audiovideo della performance di Bruce Springsteen dal Walter Kerr Theatre, sulla 48° strada a New York City, replicato dal vivo per oltre 200 volte con successo. Evento che trae buona parte delle sue ispirazioni dall'autobiografia del Boss, "Born to run" pubblicata nel 2016.

Sono magnetiche le parole del Boss, lo sono i suoi racconti d'infanzia e di gioventù, sulla depressione del padre, sull'alcolismo che ti inchioda alla Jersey Shore, sull'incontro con Patti Scialfa, sugli amici persi in Vietnam. Ogni cosa sembra illuminata nella biografia di Springsteen e non solo perché è la vita di una rockstar che mette in scena se stessa, anche perché la vita del Boss – senza alcol, senza droghe, senza eccessi – non ha propriamente le stimmate della maledizione come pretenderemmo da ogni musicista rock che si rispetti. Bruce è stato figlio, padre, marito, amante, cantante, politico, poeta.

Ogni cosa è illuminata sul palco di Broadway, perché questa storia esemplare del Novecento possiede una carica vitale e una capacità di affabulazione, unita ad autoironia e ad un'autenticità senza pari, o quantomeno difficilmente ipotizzabile per un'icona di rilevanza mondiale. Ce li vedreste Madonna o Mick Jagger capaci di squarciamento come fa "colui che ha inventato il New Jersey" prendendosi in giro per aver scritto per una vita testi sulla classe operaia senza aver mai messo piede in una fabbrica in vita sua? O sul fatto che l'autore di "Racing on the street" e "Thunder Road", all'epoca in cui scrisse queste canzoni, non sapeva nemmeno guidare? Impossibile per tutti, tranne che per il Boss. Che racconta della sua vita e ci canta le sue canzoni in modo che ci appaiano come una cosa sola.

Perché lui è magnetico, ed il suo magnetismo somiglia al vero. Sfidando il pericolo dell'autoreferenzialità con la consapevolezza dell'icona che sa di non essere uno qualsiasi. O meglio, lui sa che non bisogna raccontare frottole ai fan e può permettersi il lusso di ammettere che in arte nulla è vero, che tutto è rappresentazione. L'importante, sembra dirci dalle tavole della messa in scena, è che il gioco sia divertente e si orienti in qualche modo al giusto, che sia svolto alla luce del sole. Se il patto è chiaro, se parto dal presupposto che il mio pubblico è maturo per capirlo, allora posso venderti anche la tazza col mio faccione sopra. "Vengo da una città dove tutto è dipinto in maniera artificiale" dice all'inizio dello spettacolo "Quindi anche io lo sono". Non c'è che dire. ‘Springsteen on Broadway' è un perfetto manuale di estetica, una guida per tutti i fedeli della liturgia del Boss che nel 2019 tornerà con un disco e un nuovo tour. Quello sarà il momento in cui finalmente, potremo smettere di vedere questo magnetico documentario su uno schermo e finalmente alzarci.

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Scrittore, sceneggiatore, giornalista. Nato a Napoli nel 1979. Il suo ultimo romanzo è "Le creature" (Rizzoli). Collabora con diverse riviste e quotidiani, è redattore della trasmissione Zazà su Rai Radio 3.
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