Il Pd sfiorerà la soglia del 22%, un risultato che sembrerebbe un punto di svolta rispetto alle politiche dello scorso marzo, eppure, guardando in termini assoluti i risultati, la base votante è rimasta esattamente la stessa: sei milioni e centomila voti nel 2018; sei milioni e (quasi) trecentomila voti alla europee 2019. Un dato che, se confermato, sarebbe un vero e proprio campanello dall'allarme per tutta la sinistra italiana. Il PD, facendo leva sul voto utile, ha svuotato il resto dei partiti dello schieramento ma non è cresciuto oltre la soglia raggiunta già lo scorso anno.
Il Pd dovrebbe riporre le bottiglie e pensare che così è un partito morto, destinato a un lento logorio. Non è riuscito a polarizzare lo scontro con Matteo Salvini e a rappresentare un'alternativa credibile. Più che un punto di partenza questo è un punto di non ritorno. Un partito chiuso nei suoi salotti, capace di presentare il simbolo sui tetti di Roma il giorno dei fatti di Torre Maura non riesce più a interpretare i bisogni delle persone, anzi, non li conosce. È un partito che guarda l'Italia dall'alto in basso ma non entra nelle sue periferie, nei suoi quartieri, nella sua provincia tagliata fuori dalle infrastrutture.
Il Pd esce sconfitto tanto quanto il Movimento 5 Stelle da questa tornata elettorale perché non è un partito contemporaneo. La sua classe dirigente pensa alla TAV e poi perde in Piemonte, guarda all'industria del nord che vota Lega e si dimentica del sud. Dove sta il Pd? A che pensa il Pd? Farà un esame di coscienza o stapperà una bottiglia pensando che il 22% sia un grande risultato?
Se il Pd vuole tornare a rappresentare la sinistra deve guardarsi allo specchio e uscire dalla proprie stanze. Deve mettere al centro del proprio agire politico l'empowerment (termine che ha difficile traduzione in italiano) delle persone. Il Pd deve cambiare, deve abbandonare i tetti di roma e sporcarsi le mani con la realtà se vuole ancora sperare di rappresentare chi ha meno. Il Pd deve cambiare prima che sia troppo tardi.