"Credo che i miei compagni debbano abbandonare la cultura stalinista che considera nemico numero uno, l’amico più vicino che dissente. Siamo un partito che si chiama democratico nel nome, spero che i nostri eroi riusciranno a capire che dobbiamo esserlo anche nei fatti". Se c'è una cosa di cui va dato atto a Matteo Renzi è che non ha alcun timore reverenziale nel dire cosa pensa degli altri, compagni di partito o avversari politici che siano. Meno deciso è in realtà quando parla di se stesso, di "cosa vorrà fare da grande", del suo futuro a breve – medio termine, delle "eventuali" primarie del PD, ad esempio: "Uno di noi giovani amministratori ci sarà: non è detto che sia io". E però il senso dell'intervista rilasciata a qn resta legato ad una forte critica nei confronti del grupppo dirigente democratico, in particolare del segretario Pierluigi Bersani con cui non ha nemmeno senso parlare di frattura, tanto inconciliabili e lontane sembrano essere le due visioni della politica e del partito. Un partito stretto fra la foto di Vasto ("a me fa tanto gioiosa macchina da guerra. Era il 1993, dopo le amministrative si pensò che mettendo insieme una Grande Alleanza sarebbe stato garantito un altro successo. Sappiamo come andò a finire") e la necessità (?) delle primarie ("Dopo che per anni abbiamo fatto le primarie per decidere se un segretario di circolo doveva andare in bagno, ora diciamo che non servono più?").
Il tutto in un momento particolarmente complesso, con l'appoggio sfibrante al Governo Monti, la spinosa questione della trasparenza finanziaria all'interno dei partiti e il frettoloso e caotico riposizionamento degli schieramenti (a destra come a sinistra), che confermano l'immagine di una politica sempre più autoreferenziale e rischiano di fare del PD il bersaglio privilegiato delle "truppe a 5 stelle". Certo, va anche detto che gli esponenti democratici sembrano fare di tutto per inasprire il clima ed ampliare il solco. Da Renzi stesso, che pur riconoscendo a Grillo il merito di aver colto "una sensibilità vera fra la nostra gente", non manca di sottolineare come "molte cose mi separano da Grillo, a cominciare dal conto in banca"; fino ad un ritrovato Massimo D'Alema che probabilmente in maniera provocatoria (sarà che lo ricordiamo come un grande oratore ed analista…) ipotizza su L'Espresso una specie di complotto, di campo di forze contro "l'unica forza nazionale in grado di dare una guida politica al Paese":
"forze che agiscono per smantellare l'unica prospettiva politica in campo. Una parte della borghesia italiana. Quelli che dicono: meglio Grillo del Pd. Quelli che giocano sul patto tra gli industriali e gli indignati. Per quale prospettiva è difficile dirlo. Ci sono molti progetti velleitari, accorati appelli in direzione di Montezemolo, c'è chi attende l'arrivo del Cavaliere bianco, tutto purché non si esca a sinistra dalla crisi del berlusconismo"
Quanto simili livelli di analisi possano far bene al Partito Democratico è facile immaginare. Del resto non è una novità che l'autolesionismo costituisca da sempre uno dei punti di forza dell'esperienza del PD e di tanta parte della sinistra italiana. Ma ora la differenza sembra essere sostanziale ed il rischio è che la faida interna tolga a militanti e dirigenti la "forza" necessaria a riprendersi i temi, ridare voce alle istanze di rinnovamento, restituire credibilità ad un progetto complessivo che non si esaurisce "il giorno dopo le primarie"…