Il nuovo Governo tra crisi economica ed emergenza democratica
Gli ultimi giorni sono stati caratterizzati dalla necessità, rivendicata da più parti, di metter mano alla costruzione di un Governo tecnico o di emergenza nazionale. A fronte della nascita del Governo Monti, con la presentazione della lista dei ministri stamane al Colle, appare chiaro un dato: il neonato Governo Monti, pur annoverando nella sua squadra escusivamente tecnici di grande spessore e professionalità, incarna un preciso progetto politico. Non mi riferisco tanto alle alchimie di possibili alleanzee elettorali da far maturare durante questo scorcio di legisaltura quanto, piuttosto, alla definizione di un quadro strategico complessivo. Al vuoto di potere ed alla confusione ingenerata dalla caduta del Governo Berlusconi, la politica italiana ha risposto con una ricomposizione tutta interna al ceto. Se il berlusconismo si è caratterizzato come visione della politica staccata dalla partecipazione e confinata in una dimensione di alterità, allora non sarebbe così azzardato pensare che che la fase politica che stiamo vivendo si configuri come una estrema propaggine del berlusconismo.
Probabilmente il Governo Monti è il primo governo nella storia repubblicana a nascere "sotto la spinta" dei mercati. Il dato veramente drammatico è che la politica italiana in questo momento si trova ad essere eterodiretta. Un governo che nasce per "soddisfare" le richieste della BCE, del FMI, e delle altre isituzioni sovranazionali di carattere economico, annulla in un sol colpo quel briciolo di autonomia delle nostre istituzioni che il Paese aveva conservato nonostante la lunga stagione berlusconiana. Il quadro è allarmante: istituzione economiche non legittimate da una procedura elettiva, sottratte dunque al controllo democratico, di fatto decidono la politica economica del nostro Paese, svuotando le residue procedure democratiche di rappresentanza di ogni valore.
Si potrebbe facilmente obiettare: la crisi impone uno scenario di questo tipo, bisogna rassicurare i mercati e salvare l'Italia dal default. Ciò è certamente vero. C'è un elemento però che sembra essere completamente espunto dalla discussione pubblica: la gigantesca crisi politica, prima che economica, che attanaglia l'Italia e più in generale tutto l'Occidente. Se si accetta che sia l'economia, peraltro nell'ineffabile forma di "capitalismo finanziario", a disegnare il recinto entro il quale la politica è costretta a muoversi, vengono meno proprio quei presupposti sui quali è potuta determinarsi qualcosa come la "democrazia occidentale". La crisi del capitalismo oggi è innanzitutto una crisi della democrazia. Bisognerebbe ribaltare il rapporto. Le politiche economiche dell'Italia e dell'Occidente non possono semplicemente "adeguarsi" al trand dei mercati; va riscritto un orizzonte complessivo della politica economica capace di indicare prospettive e priorità, una visione ampia che tenti di spezzare l'assunto (spiccatamente ideologico) secondo il quale il mercato deve essere lasciato libero da ogni condizionamento. Andrebbe forse riguadagnata, in un senso molto ampio, una sorta di ragione sociale dell'economia. Qui non si tratta solo, o almeno non è soltanto questo, di individuare la ricetta adeguata per fronteggiare la crisi, quanto soprattutto di recuperare un sano percorso democratico.
L' avvento della crisi non può essere spiegato con la retorica del fatalismo; essa è esattamente il risultato dell'idea secondo la quale la politica deve ritagliarsi uno spazio di mera "amministrazione", mentre i destini del mondo vanno lasciati nelle mani del "mercato autoregolantesi". E se in parte la crisi è il frutto di trent'anni di politiche liberiste, il governo Monti, pur operando un deciso scatto in avanti sul piano della credibilità e della pulizia istituzionale rispetto all'esperienza berlusconiana, non sembra sottrarsi a questo stato di cose.
Recuperare spazi di democrazia, di partecipazione, porre con decisione il tema della legittimazione democratica dei centri decisionali: questo deve essere il compito della politica oggi. Se si pensa che la crisi economica possa esser superata dall'assunzione di questo piuttosto che di quel provvedimento, vuol dire che ancora non si ha coscienza con esattezza della gravità della situazione.