“Evidentemente o c’è qualcuno che sa comprare bene o qualcuno che si vende per poco. Dal mio punto di vista io credo che il M5S possa fare a meno di persone che preferiscono tradire il mandato elettorale piuttosto che portare avanti una battaglia di coerenza e onestà come quella che stiamo portando avanti da due anni”. La reazione di Luigi Di Maio dice molto sul peso reale che ha nella galassia grillina l’ennesimo abbandono di massa del gruppo parlamentare: una questione secondaria, tutto sommato ininfluente negli equilibri interni e quasi “fisiologica” data la natura della svolta impressa da Beppe Grillo. Certo, i numeri sono impietosi: dall’inizio della legislatura sono 36 i parlamentari che non fanno più parte dei gruppi M5S (tra espulsioni ed abbandoni), alla Camera si è passati da 109 a 91 e al Senato da 54 a 36 (gli stessi del gruppo Area Popolare, che raccoglie Ncd e Udc). Ma la sensazione è che il progetto di Grillo, quello della normalizzazione interna e del rafforzamento del gruppo dirigente attuale, ne abbia tratto beneficio.
Il punto è che, ormai da tempo, il Movimento 5 Stelle ha rinunciato ad “aprirsi” e ha scelto di rafforzare la propria struttura, provando a consolidare il consenso e ad isolare i dissensi: Grillo e Casaleggio hanno sostanzialmente preso atto della fine della “fase espansiva” ed hanno pensato che il rischio disgregazione fosse molto alto, optando per un approccio di tipo conservativo. Nel momento di maggiore difficoltà per il Movimento, con il boom renziano e la durissima concorrenza della Lega Nord sul piano della propaganda populista, si è scelto di sacrificare gli spazi della riflessione critica e del confronto interno e di incardinare l’esperienza movimentista in una struttura molto più rigida. L’obiettivo è molto più pratico e a breve termine: limitare i danni e prepararsi alla (complicata) opposizione alla reggenza (che si preannuncia lunga, indipendentemente dal fatto che si andrà a votare a fine 2016…) di Matteo Renzi.
In sostanza, le espulsioni e gli abbandoni sono effetti collaterali della svolta, come vi raccontavamo qualche mese fa: “Piaccia o meno, il M5S è (diventato?) un partito gerarchico e strutturato, con una serie di corpi intermedi e di sottostrutture, con una comunicazione (quasi) esclusivamente top – down e con una forte impronta decisionista. I post di Grillo (il quale solo raramente raccoglie istanze e ragionamenti condivisi dalla base) sono la forma attraverso la quale si concretizza ai massimi livelli questo sistema e rappresentano una surroga di ciò che manca (quasi completamente e in parte per scelta) al M5S: la riflessione ideologica, la declinazione di una identità politica che sia precondizione della discussione programmatica, la scelta di riferimenti chiari che vadano oltre un post ideologismo generico e vuoto”.
Che la fase espansiva sia archiviata è testimoniato anche dalla modalità con la quale il gruppo dirigente ha blindato la scelta delle candidature regionali ed è intervenuto a “sanare le controversie” (sostanzialmente con atti di puro arbitrio…). Del resto, a fornire un alibi a questa linea di condotta è stato anche il comportamento di molti parlamentari “dissidenti”, che in alcuni casi hanno operato distinguo decisamente discutibili, con scelte contraddittorie, interviste improvvide e comportamenti che in qualche modo ne hanno minato la credibilità politica, prima in Parlamento e poi nel Movimento.
Dunque, nessun problema? Forse, perché se è vero che da tempo gli integralisti ripetono che è meglio "in pochi ma fidati", allo stesso tempo è chiaro che l'azzeramento della dialettica interna è una contraddizione troppo evidente rispetto al "senso stesso" della nascita del Movimento 5 Stelle. La litigiosità, le diatribe sugli scontrini, i voti in dissenso ed i piccoli interessi personali hanno sì rappresentato un colpo durissimo per la credibilità del Movimento 5 Stelle come soggetto politico "pronto" per assumersi responsabilità di Governo, ma probabilmente non meno delle purghe e dell'isterismo del capo politico, del mancato rispetto di elementari regole di democrazia, degli atti di arbitrio, dell'opposizione acritica e (a volte) strumentale, dell'atteggiamento sprezzante nei confronti degli "altri", politici o elettori che fossero.
Certo è che consolidare il consenso delle politiche era impresa titanica, soprattutto considerati i limiti della compagine grillina in Parlamento (politici, intellettuali, di esperienza), il generale clima di sfiducia nella politica nel suo complesso e le larghe intese (che avevano garantito la tenuta del "sistema politico tradizionale"). Grillo è riuscito in questa impresa sacrificando molto, si dirà: in primo luogo la riflessione programmatica e "ideologica", poi lo spirito originario del Movimento (quell'uno vale uno che non esiste più, il "mito" della Rete, l'inclusività, la democrazia diretta e via discorrendo), infine la possibilità stessa di rappresentare una "vera" alternativa di Governo. Ed ha ripensato il progetto, trasformandolo in un partito e nell'unica vera opposizione al Governo Renzi.
Da questo punto di vista, sono i numeri a dare ancora ragione a Grillo e sono le "contingenze" a rendere necessaria una assunzione di responsabilità da parte del gruppo dirigente 5 Stelle. Che Grillo e Casaleggio hanno scelto fra i loro fedelissimi. Come ogni altro partito italiano.