Novembre amaro per Fiat, oggi tra i titoli più bersagliati dalle vendite in borsa a Milano con un calo superiore al 2,3%, di circa un punto peggiore del ribasso degli indici generali del listino italiano nonostante il boom di vendite di Chrysler che il mese scorso ha venduto 142.275 vetture (contro attese di consenso attorno ai 135 mila veicoli), pari ad un incremento annuo del 16% che costituisce il miglior risultati dal 2007 per questo mese dell’anno, grazie in particolare al buon risultato ottenuto dalla Jeep Cherokee. A pesare sul titolo sono infatti, ancora una volta, le vendite sul mercato domestico che lo scorso mese ha registrato mediamente un calo del 4,54% delle immatricolazioni (fermatesi ad appena 102.201 vetture, un livello che non si vedeva dal novembre del 1977), dato rispetto al quale il gruppo guidato da Sergio Marchionne ha fatto molto peggio: -12,30% con appena 27.800 nuove vetture immatricolate, con una quota di mercato calata al 27,19%, dal 29,61% di un anno fa (e dal 28,12% di fine ottobre). Un calo su cui pesano l’ulteriore frenata di Lancia (poco più di 4.300 vetture vendute, il 16,5% in meno di un anno fa, quota di mercato ferma sul 4,2%) e Alfa Romeo (poco più di 2.100 vetture immatricolate, il 20,2% meno di dodici mesi prima, quota di mercato in calo al 2,1%).
Si vede, commenta qualche operatore, che a Piazza Affari resta ancora qualche investitore “romantico” che compra o vende il titolo in base ai “fondamentali”, segno in fondo che non conosce bene il presente e il futuro sempre più prossimo del gruppo Fiat, che è ormai da tempo chiaramente a stelle e strisce se è vero come è vero che mentre negli Usa pur calando del 15% su base annua le vendite della Fiat 500 sono risultate complessivamente pari a 3.075 (portando a 39.491 veicoli le immatricolazioni da inizio anno, solo l’1% meno delle 40.065 unità dei primi 11 mesi dell’anno scorso) le stesse sono superiori a quelle che realizza Alfa Romeo in Italia (che da inizio 2013 ha venduto sul mercato domestico solo 29.500 vetture, il 25,5% in meno che nello stesso periodo del 2012), come pure che il marchio Jeep in realtà continua a non registrare volumi degni di nota nel “Bel Paese” con appena 476 vetture immatricolate il mese passato (-11,85% su base annua) e 5.400 da inizio anno (-11%).
Insomma: non solo il futuro di Fiat non è in Italia, almeno finché in Italia e in Europa la domanda interna continuerà ad essere carne di macello sotto i colpi della repressione fiscale fortemente voluta dalla Germania e dai suoi alleati del Nord Europa di cui il Commissario Ue agli Affari economici (ed aspirante prossimo presidente dell’Eurogruppo) Olli Rehn, abituale “bacchettatore” degli italici vizi, è un esponente. Il futuro di Fiat sarà sempre più Chrysler-centrico e legato all’evoluzione del mercato statunitense perché quel mercato e quell’azienda “tirano” in un momento in cui il gruppo non ha strade alternative facilmente percorribili né in Europa né in Asia ( in particolare in Cina, dove Fiat cerca da anni con scarso successo e forse non sufficiente convinzione di trovare sbocchi che i concorrenti americani e tedeschi hanno già iniziato a trovare) e difficilmente in America Latina (dove anzi si deve sperare che la frenata, sempre più evidente, della crescita brasiliana non pesi troppo sui risultati del gruppo italiano).
Per inciso questa mattina gli analisti di Exane Bnp Paribas in uno studio sul settore dell’auto europeo hanno assegnato un rating “underperform” (farà peggio del mercato) sia a Fiat (per la quale gli esperti francesi parlano di un prezzo obiettivo di 4 euro per azione, inferiore di quasi il 28% alle quotazioni attuali) sia a Renault, Porsche e Bmw, mentre Daimler e Peugeot sono giudicate “outpeform” (faranno meglio del mercato) e Volkswagen ha spuntato un rating “neutral”. Il giudizio negativo sul titolo italiano è motivato dagli esperti francesi oltre che a causa dell’esposizione ai mercati italiani ed europei, per il rischio, giudicato elevato, che il gruppo lanci un aumento di capitale dopo un eventuale acquisto delle quota di minoranza di Chrsyler (41,5%) tuttora in mano al fondo pensione Veba, legato al sindacato Uaw. Un acquisto che dipende molto dal valore del gruppo di Detroit, qualche settimana fa apparso sul punto di ritornare sul listino americano attraverso una Ipo che, da indiscrezioni, avrebbe visto le banche d’affari valutare il 100% della società americana tra 9 e 16 miliardi di dollari.
Per ora l’Ipo è slittata e questo dà tempo a Fiat di trovare un accordo con Veba per evitare l’Ipo (per non dover poi pagare un premio rispetto alla valutazione di mercato di Chrysler per entrare in possesso dei titoli in mano al fondo pensione americano). Ma non sfugge a nessuno che anche in questo caso le trattative vertono sul valore delle attività americane, non di quelle italiane. E che Torino rischia di essere sempre più marginale, come il mercato italiano, nelle future decisioni del gruppo. Una storia che si ripete in un paese che non riesce a ritrovare la strada per crescere e vede vecchi più o meno presunti esperti proporre il ritorno a dazi e forme di protezionismo dei “bei tempi di una volta” (che non torneranno più), senza capire che occorre risalire lungo la catena di valore abbandonando i settori più maturi e meno redditizi per puntare sull’innovazione e le competenze. Ma già: prima sarebbe stato necessario investire nel settore educativo italiano, per non vedere contemporaneamente crescere la disoccupazione e la carenza di lavoratori ad elevate scolarità e competenza. Curioso che nessuno noti che questo sta già accadendo da anni e non certo per colpa dell’euro o della Cina.