Più passano le ore, più la lista delle “vittime” della decisione con cui la scorsa settimana la Banca nazionale svizzera (Bns) ha abbandonato il “peg” (cambio fisso) con l’euro e lasciato il franco svizzero rivalutarsi per ora senza intervenire (anche se in molti pensano che la mossa precluda a un “pilotaggio” graduale del cambio dall’attuale parità ad un livello di 1,1 franchi per euro che risulterebbe tollerabile dal’economia elvetica senza gonfiare ulteriormente il bilancio della Bns) si allunga. In una sorta di “caccia al tesoro” alla rovescia sui mercati si è già scatenata una ridda di voci e stime sulla base degli ultimi dati noti prima dell’annuncio.
Nei guai vi sarebbero fondi hedge, grandi banche e persino stati che potrebbero dover imitare la Svizzera se le tensioni sui cambi non si smorzeranno. La prima vittima annunciata è stata Everest Capital, società di fondi hedge fondata nel 1990 e da allora guidata da Marko Dimitrijevic, analista finanziario e gestore di lungo corso di Wall Street che nella propria carriera era sopravvissuto almeno a cinque precedenti relative al debito emesso da paesi emergenti. Questa volta però, dopo che proprio scommettere contro il franco aveva fatto chiudere in guadagno il principale fondo gestito da Dimitrijevic, l’Everest Capital Global Fund (dopo che un referendum per obbligare la Bns a mantenere almeno il 20% delle proprie riserve in oro era stato sonoramente bocciato dagli elettori elvetici), il violento rimbalzo del franco ha portato alla decisione di liquidare il fondo, che solo a fine dicembre risultava possedere un patrimonio di 830 milioni di dollari (a fronte di oltre 2,2 miliardi gestiti nel complesso da Everest Capital).
Mentre non è certo che tutta la cifra sia stata “bruciata” dalla rivalutazione del franco (una parte potrebbe essere stata ritirata dai clienti del fondo stesso per ridurre la propria esposizione al rischio), è certo che almeno un broker inglese, Alpari, è già saltato a dopo che la maggior parte dei suoi clienti non è riuscito a rifondere le perdite subite, perdite superiori alla liquidità complessivamente disponibile sui conti presso Alpari (a cui come ad ogni intermediario spetta di coprire le perdite non coperte di singoli clienti), che così non ha avuto altra scelta che dichiarare, venerdì sera, il proprio stato di insolvenza. Ma Everest Capital e Alpari sono tutto sommato “cani piccoli”: sono invece “cani grossi” tre banche del calibro di Citigroup, Deutsche Bank e Barclays che si dice abbiano già accusato perdite per complessivi 400 milioni di dollari e che potrebbero veder aumentare la propria sofferenza se la mossa della Bns fosse imitata da altre banche sovrane.
Un’ipotesi non così remota visto che tenere il cambio sostanzialmente fisso contro l’euro sta mettendo sotto pressione anche la Danimarca che ora potrebbe seguire, nonostante le immediate smentite ufficiali, l’esempio della Svizzera. A rassicurare che il cambio danese resta “sicuro” non è stato solo il ministro delle Finanze Morten Oestergaard ma anche gli analisti di Seb Ab, la principale banca dei paesi scandinavi, che in una nota ribadiscono oggi di ritenere “altamente improbabile” una rivalutazione della corona danese contro euro. Per essere maggiormente certi che tutti avessero capito il messaggio, la stessa banca centrale danese avrebbe contattato Seb, Danske Bank e altre banche, oltre ai maggiori fondi hedge internazionali, per ricordare loro che il regime di cambi fissi sulla corona danese è in essere da almeno 30 anni, ed è formalmente supportato dalla stessa Bce (cosa che non era vera nel caso del franco svizzero). Rassicurazioni che per ora sono bastate, ma non hanno fatto certo cessare l’allarme che si è subito spostato verso altre valute dell’Est Europa e dell’Asia.
Non è ad esempio un segreto che molti risparmiatori in Polonia, Ungheria e Russia hanno fatto affluire capitali vuoi esportando i propri capitali in Svizzera, vuoi indebitandosi in franchi per sfruttare i bassi tassi e il cambio stabile. Così una nota di Goldman Sachs oggi ha fatto correre più di un brivido lungo la schiena agli investitori facendo notare come in Polonia i mutui denominati in franchi svizzeri potrebbero non essere sufficientemente “coperti” dal rischio su credito. Mutui che secondo dati citati dall’agenzia Bloomberg rappresentano il 6,7% del Pil polacco, ma che le autorità monetarie del paese dichiarano essere più che ben protetti, dato che in base ai numeri emersi dagli stress test della Bce le banche di Varsavia avrebbero mediamente accantonato una somma pari al doppio dell’esposizione in essere al momento. Anche in questo caso, dunque, allarme che per ora rientra, ma campanello che continuerà a suonare a lungo nella testa degli investitori, tanto più che da qui a giovedì Mario Draghi dovrebbe annunciare se e come verrà lanciato il “quantitative easing” (programma di acquisto di bond sul mercato) di cui da mesi si parla.
Il mercato punta su un plafond di 500 miliardi di euro e la possibilità che i maggiori beneficiari della misura siano i tesori spagnolo e italiano, la Germania, preoccupata anche del rischio contagio che potrebbe tornare a emergere dalla Grecia, continua a puntare i piedi e potrebbe ottenere o un plafond inferiore (che però rischierebbe di non piacere al mercato) o una modalità di erogazione differita nel tempo o ripartita strettamente su base nazionale così da non comportare alcuna “mutualizzazione” del rischio-paese. Solo a quel punto si capirà se l’euro ha finito o meno di scendere e se qualche altro operatore dovrà alzarsi dal tavolo e abbandonare la partita. Di certo sono bastati pochi minuti venerdì ed un componente contro cui da almeno sei anni le banche centrali di tutto il mondo stanno combattendo (e contro cui le banche commerciali si sono almeno in parte vaccinate a colpi di aumenti di capitali, dismissioni e accantonamenti), il “rischio sistemico”, è tornato ad affacciarsi con prepotenza sui mercati, con conseguenze negative solo in parte prevedibili al momento.