Continua a tenere banco il tema del finanziamento pubblico ai partiti, con le posizioni che sembrano ormai ben definite, in una partita dall'esito però abbastanza scontato. In effetti, da una parte l'opinione pubblica, in gran parte contraria "per principio" alle ormai tradizionali forme di sostentamento dei partiti, esasperata dallo spreco di denaro e dalle quotidiane disavventure di tesorieri e dirigenti (chiamiamole così…), tendenzialmente egemonizzata dalle sirene dell'anti-politica (un termine improprio ma che rende l'idea). Un orientamento condiviso a più livelli e che trae vigore anche dalla considerazione del "tradimento" perpetrato anni addietro, con l'aggiramento del referendum popolare con il trucchetto della trasformazione dei finanziamenti in rimborsi elettorali. Ma anche una linea legittima, se si considera lo stato della politica italiana, l'imbarazzante mancanza di trasparenza e la mole di "casi" nei quali sono stati coinvolti a vario titolo e a differenti livelli i maggiori partiti italiani.
Il fronte compatto dei "rimborsisti" – Dall'altra parte, non senza qualche rilevante distinguo, la fitta schiera di partiti e movimenti interessati a non perdere le ricche provvigioni statali, che sostanzialmente contribuiscono a mantenerne ben radicato il potere territoriale e "politico" appunto. Senza i finanziamenti, pardon i rimborsi elettorali, i partiti non sarebbero quello che sono ora e non potrebbero assolvere "quella funzione di raccordo, di rappresentanza e di mediazione prevsta dalla nostra Costituzione".
Il ruolo del Governo – In mezzo, il Governo Monti che cerca una sostanziale mediazione (pur non avendo di fatto né la necessità, né la "voglia" di intervenire in una sfera che resta, almeno rebus sic stantibus, di competenza esclusivamente parlamentare) e parte degli organi di informazione. L'idea di base in questo caso è quella di evitare la confusione ed il pressappochismo, discernendo tra propaganda, populismo e faziosità e cercando di isolare l'essenza del problema. Già, perché tecnicamente restano importanti le differenze fra finanziamento pubblico ai partiti, finanziamento volontario e rimborsi elettorali, così come resta prioritario immaginare un modello "alternativo" per il complesso della politica italiana.
Di cosa stiamo parlando? – Partendo da qualche considerazione di fondo. In primis va riconosciuto che l'abolizione del finanziamento pubblico nel 1993 resta un "fatto" del quale tenere conto: anche perché non si capisce in che misura un "risultato ottenuto sotto l'effetto di un clima avvelenato da Tangentopoli" possa inficiare il valore complessivo di un referendum popolare. Così come bisogna fare i conti con il "trucco" operato pochi mesi dopo, con l'aggiornamento della legge preesistente sui rimborsi elettorali, nonché con le successive modifiche che dapprima hanno abbassato all'1% la soglia minima di consenso elettorale per ottenere tali rimborsi (2002), successivamente ne hanno aumentato considerevolmente la consistenza nonché la "durata" (dal 2006 al 2011 l'erogazione dei fondi è stata mantenuta per tutti i 5 anni anche in caso di interruzione della Legislatura). Attualmente si calcola che i partiti ricevano più o meno 1 euro all'anno per ogni "cittadino iscritto nelle liste elettorali", per rimborsi che raggiungono quote considerevoli nell'arco dell'intera legislatura: dai 160 milioni di euro del Popolo della Libertà ai 24 dell'Unione di Centro fino ai quasi 9 dell'Italia dei Valori. Unica mosca bianca, la lista Bonino – Pannella che ha scelto di rinunciare ai rimborsi elettorali.
Ma a cosa servono questi soldi? –Assodato (?) che i partiti (questi?) ricoprono un ruolo fondamentale nell'attuale modello di democrazia rappresentativa e chiarito che l'ipotesi di un organismo istituzionale che controlli direttamente i meccanismi di democrazia – gestione all'interno dei singoli partiti presenta non pochi problemi (e resta complessa sia da un punto di vista "concettuale" che da quello strettamente costituzionale), è lecito attendersi un ragionamento di senso da parte del Parlamento e dell'opinione pubblica. Così, l'idea delle ultime ore è quella di una "Commissione per la trasparenza ed il controllo dei bilanci dei partiti politici", a capo della quale dovrebbe insediarsi il Presidente della Corte dei conti; mentre allo stesso tempo, i partiti dovranno sottoporre i loro bilanci al controllo e alla certificazione di società di revisione iscritte alla Consob (come più o meno già avviene per il Partito Democratico). Bilanci che saranno disponibili su Internet e la cui eventuale irregolarità verrà punita anche con sanzioni pecuniarie. Tutto risolto dunque? Neanche per sogno. Perché se la bozza di accordo costituisce un deciso passo in avanti, la sensazione è che si tratti di misure che non attenueranno il clima di pressione intorno alla questione. Il punto centrale resta quello delle modalità, della portata e dell'utilizzo che i partiti fanno dei soldi pubblici. In poche parole non si tratta semplicemente di garantire la trasparenza della gestione del denaro pubblico (che dovrebbe essere un prerequisito essenziale), quanto di ripensare criticamente il ruolo, la funzione e lo "scopo" dei partiti stessi.
Abolire i finanziamenti pubblici? – Scrive lucidamente Valentino Larcinese su LaVoce: "Quello che colpisce degli scandali nostrani è semmai l’uso privato dei fondi destinati ai partiti: se Tangentopoli poteva ancora rientrare entro gli schemi di una democrazia occidentale, pur con tutti i suoi problemi, la tesoropoli di questi giorni sembra più degna di una decadente satrapia. E tuttavia, sarebbe bene ragionare sui fatti ed evitare di cavalcare gli istinti di piazza". Ecco, il nodo della questione sembra francamente essere questo. Ha senso, nell'attuale modello di democrazia rappresentativa, immaginare partiti finanziati direttamente dai privati, che siano aziende, fondazioni o semplici cittadini? E' questo il modello che abbiamo in mente? Quello cioè di funzionari di partito e parlamentari alla caccia di cospicue sovvenzioni e donazioni e "obbligati poi a misurare la loro lealtà in termini meramente economici". Intendiamoci, non che sia per forza di cose sensato il solito canovaccio che ipotizza un modello in cui i partiti diventino schiavi di aziende, banche e multinazionali, ma resta evidente come ogni condizionamento esterno possa essere un limite all'attività politica (non che questo non avvenga già). Per non parlare poi del fatto che la matrice privata non è necessariamente garanzia di funzionalità e trasparenza: almeno non fino a quando non saranno previste stringenti regole di controllo (attualmente non è dato conoscere l'entita delle piccole donazioni) o magari non sarà limitata alle sole persone fisiche la possibilità di elargire donazioni (come in Francia, ad esempio).
La strada del buonsenso è quella giusta? – Come detto, i primi passi sembrano andare nella giusta direzione, ma il percorso è lungo e i partiti non possono pensare di attraversarlo senza "concedere nulla". In primis sulla consistenza del finanziamento, che deve necessariamente essere legata a criteri oggettivi (in Germania si fa riferimento ai voti realmente ottenuti) e calibrata anche tenendo in considerazione il particolare momento che sta attraversando il nostro Paese. Insomma, sacrifici per tutti, nessuno escluso e dunque ai partiti è lecito chiedere prima di tutto una razionalizzazione delle spese e l'eliminazione degli sprechi interni. Una scelta preliminare a quella che è la vera sfida dei partiti politici italiani: tornare ad essere un punto di riferimento essenziale, garantire rappresentanza e mediare istanze collettive e condivise, aprirsi realmente alla partecipazione dei cittadini attraverso meccanismi inclusivi che garantiscano il coinvolgimento diretto nelle scelte. Insomma, per farla breve: è giunto il momento che i cittadini si riapproprino dei partiti e siano chiamati in maniera continua e diretta alla vita politica del Paese. Non è solo una "questione di soldi", né (soltanto) di come vengono spesi, bensì di avere sempre presente il "senso dell'operato dei partiti", la direzione verso la quale navigano ed il modello di Paese che hanno in mente. Tutte cose che saremmo ben lieti di pagare con i nostri soldi.