Quello andato in scena oggi è il primo, vero, confronto di merito fra il Movimento 5 Stelle ed il Partito Democratico. Un incontro certamente non paragonabile a quello andato in scena solo qualche mese fa, quando un Beppe Grillo nervoso e insofferente non trovò di meglio che buttarla in caciara (perfettamente coadiuvato da un Renzi in formato Ballarò); ma, fortunatamente, diverso anche da quello della lezioncina di Letta e dello "scongelamento" dei confusi portavoce 5 Stelle e lontano anni luce dall'imbarazzante confronto tra Bersani e la coppia Crimi – Lombardi (uno dei peggiori spettacoli visti da anni a questa parte, con la disperata questua dell'allora segretario del Pd e l'improponibile linea della fermezza e dell'arroganza degli allora capigruppo grillini).
I protagonisti – Non sfuggirà ai più che se l'incontro ha avuto un esito diverso (vedremo anche con che "sostanza"), parte del merito è da attribuire agli interlocutori. A quelli parlanti, ovviamente: Renzi, Di Maio e Toninelli. Gli altri 5 hanno fatto scena muta e sarebbe anche il caso di interrogarsi sul senso della loro presenza. Invece, gli altri hanno avuto il merito di impostare un confronto sensato, certo con l'influenza determinante e condizionante dello streaming (che di fatto annulla anche la possibilità di convergenze a metà strada, ma questo è evidentemente un altro discorso). Renzi, libero dell'assillo della conquista del consenso a tutti i costi e da formalità istituzionali (la sua presenza era come "segretario del Pd"), ha potuto premere anche sull'acceleratore, non risparmiando sarcasmo e battutine, ma contemporaneamente mostrandosi possibilista (?) su determinati aspetti della legge. Non dimentichiamo che il capo del Governo muoveva certo da una posizione di vantaggio (dopo il cappotto delle Europee), ma allo stesso tempo era il solo ad avere qualcosa da perdere, con il percorso già avviato sull'Italicum (impianto tenuto in vita solo grazie al determinante supporto di Forza Italia) e con la discussione sulla riforma del Senato che è il vero nervo scoperto in casa democratica. Di Maio ha mostrato ancora una volta di essere il vero leader in pectore dei parlamentari grillini, o meglio, quello su cui puntare per i prossimi anni: ha mostrato contegno e freddezza, ha evitato sceneggiate ed esagerazioni verbali e ha lasciato intendere di poter gestire da solo la trattativa (ma Brescia e Buccarella?). E non è un caso che sia stato il bersaglio privilegiato delle frecciatine di Renzi (dalla delazione dei "pizzini" alle 162 preferenze che "non basterebbero per un consigliere regionale"). Toninelli infine ha mostrato di padroneggiare la materia (vabbeh, era la sua legge, in pratica…) e ha retto bene il confronto con un Renzi (volutamente?) confuso, soprattutto sulle preferenze.
La trattativa – I grillini hanno presentato la loro proposta di legge, Renzi ha messo sul piatto cinque condizioni, che in realtà sarebbero tre: correttivi all'impianto proporzionale del Democratellum (con un premio di maggioranza, magari), riduzione territoriale dei collegi intermedi e pre-indicazione delle alleanze politiche (in modo che gli elettori sappiano prima "con chi andranno ad allearsi", senza che si possa verificare "un nuovo caso Farage"). La "condizione" del parere preventivo della Corte Costituzionale è solo buonsenso, mentre quella della partecipazione alle riforme costituzionali è una evidente forzatura: per di più, avanzarla proprio mentre si chiude la finestra per la presentazione degli emendamenti alla riforma del Senato, suona come una presa in giro. Il M5S ha ascoltato, incassato: ora si riuniranno, valuteranno e via ad un nuovo incontro. Già, ma per fare cosa?
I margini di manovra – Immaginiamo per un attimo che il Movimento accettasse le condizioni poste da Matteo Renzi, cosa accadrebbe? Il Pd abbandonerebbe l'Italicum per un sistema proporzionale con mini premio di maggioranza, con preferenze e collegi piccoli senza soglie di sbarramento? Oppure il Movimento accetterebbe di votare un Italicum corretto con preferenze e coalizioni? Ipotesi possibili, ma decisamente poco probabili ed ancor meno plausibili. Per veti incrociati (da una parte Fi, dall'altra di una parte consistente dei 5 Stelle), per volontà politica e per una serie di incompatibilità di fondo (che abbiamo riassunto in questo confronto fra Italicum e Democratellum). Renzi ha in effetti avuto cura di non rispondere direttamente alla domanda sull'accettabilità delle preferenze (che restano tabù, nonostante le pressioni interne alla stessa maggioranza, men che mai nella forma confusa e discutibilissima delle preferenze negative e positive) e di non affrontare nemmeno il discorso delle soglie di sbarramento o sulle candidature multiple. Dall'altra parte la distinzione di senso fra "governabilità e certezza di vittoria" resta imprescindibile per i grillini, così come resta la "necessità dell'intransigenza" sui premi di maggioranza e sulla garanzia della rappresentanza. Il punto è che una trattativa anomala come questa può avere senso e valore solo se c'è una precisa volontà politica da parte degli interlocutori (che manca, per motivi diversi). Ma appare complicato che il Pd accetti di disconoscere la linea della fermezza sull'Italicum tenuta solo pochi mesi fa (qualcuno ricorda il modo in cui è passato l'Italicum alla Camera?) e di mettere in crisi il rapporto privilegiato con Forza Italia proprio alla vigilia del passaggio della riforma del Senato a Palazzo Madama. Certo, in condizioni diverse, basterebbe venirsi incontro: ma il "do ut des" fa tanto prima Repubblica. E poi c'è lo streaming.
Ecco, staremo a vedere ma la sensazione, streaming o meno, è che vi sia poco di concreto su cui trattare. Sembra un bluff, insomma. Anzi, un doppio bluff.