Il dato, diffuso stamane da Eurostat, relativo all’andamento del rapporto debito/Pil in tutta l’Eurozona a fine giugno (per l’Italia siamo arrivati ormai al 130,3%, con 2.034,763 miliardi di debito, vale a dire oltre 33.350 euro di debiti che gravano sulla testa di ogni italiano, neonati e centenari inclusi) è uno di quei campanelli d’allarme che la classe politica italiana (ed europea) dovrebbe sforzarsi di comprendere a fondo, sia nella sua drammatica enormità assoluta e relativa, sia nella sua genesi.
Perché non capire come si sia formato un tale rapporto significa condannarsi a non trovare una soluzione a una crisi che si trascina ormai da quasi cinque anni, ossia dal crack di Lehman Brothers prima e dalla crisi del debito sovrano poi e che entro fine anno farà crescere quasi inevitabilmente il rapporto al 134% se anche le entrate fiscali restassero immutate (mentre con la crisi è probabile che scendano), le spese non aumentassero ulteriormente (come invece è più che probabile, ad esempio a causa dei costi degli ammortizzatori sociali) e il costo del debito non andasse oltre l'attuale 3,48% (pari al Rendistato medio complessivo calcolato dalla Banca d'Italia a fine giugno), per il semplice fatto che il debito aumenterà appunto ad almeno 2.100 miliardi a fine anno tenuto conto degli interessi e che il Pil (atteso in calo dell'1,9%) si ridurrà dai 1.565,916 miliardi segnati l’anno scorso a circa 1536,16 miliardi.
Andiamo dunque a leggere assieme direttamente i numeri presentati da Eurostat e scopriamo alcune piccole-grandi verità che continuano ad essere se non taciute sottovalutate da molti commentatori e dai “policy maker”. Anzitutto l’Italia non ha il maggior debito pubblico, perché quel record spetta alla Germania con 2.150,5 miliardi di euro, ma il Pil della Germania continua a crescere e il suo debito ad essere ritenuto più che sostenibile (anche, sebbene non solo) per questo motivo dai mercati finanziari mondiali. Col risultato che il rapporto debito/Pil tedesco è sostanzialmente stabile nell’ultimo anno (era pari nel marzo 2012 all’81,1%, contro l’attuale 81,2%), avendo riassorbito il frazionale incremento dovuto alla frenata della crescita tedesca di fine 2012 (il rapporto era salito all’81,9% alla fine dello scorso anno). Inoltre l’Italia non ha neppure il più elevato rapporto debito/Pil: quel tristissimo primato spetta alla Grecia, col 160,5% (contro il 136,5% del marzo 2012 e il 156,9% di fine 2012).
Proprio la Grecia è la prova più evidente del fallimento della ricetta (retorica e poco pratica) della “repressione fiscale” fortemente voluta (per motivi eminentemente elettorali) dalla Germania, perché gli incrementi delle tasse e i “risparmi” forzati di spesa pubblica (leggi: il licenziamento di decine di migliaia di persone) nel breve tempo causano un aumento della disoccupazione e un calo della produzione, facendo peggiorare il rapporto. Le riforme, quelle vere, sono necessarie, ma occorre badare al “timing” di quando vengono varate e se è vero che “chi causa del suo mal, pianga se stesso”, è irrazionale continuare a sperare che una ricetta sbagliata nei tempi e nei modi possa portare a qualche beneficio ad Atene o ai suoi creditori internazionali. Il tutto, si noti, dopo una pesante “ristrutturazione” del debito pubblico che un paio d’anni fa ha colpito i bondholder privati (sostanzialmente le banche) e che da qui a un altro paio d’anni al massimo rischia di colpire i contribuenti di Eurolandia (perché sarà chiaro che i prestiti ricevuti non potranno essere restituiti nei tempi previsti, se mai lo saranno).
I numeri dell’Italia peggioreranno e la “luce in fondo al tunnel” che qualche nostro politico ed (ex?) economista continua a vedere è probabilmente quella di un convoglio ferroviario che ci sta venendo addosso a grande velocità. Sarebbe quindi il caso che il “macchinista” di turno, sia esso il premier Enrico Letta o il ministro del Tesoro Fabrizio Saccomanni facciano attenzione. Non è con nuove “manovre” autunnali basate su ulteriori tasse (comunque denominate) o con la dismissione di aziende pubbliche efficienti (come Eni o Enel, il cui dividend yield, fa notare un economista serio come Mario Seminerio, resta superiore al 6%, contro un costo del debito pubblico che oscilla tra il 3,5% e il 4%, dividend yield cui lo stato dovrebbe rinunciare in caso di cessione delle quote) che si risaneranno i conti. I conti si risaneranno solo: rilanciando la crescita, ossia riducendo la pressione fiscale, e rimodulando la spesa, tagliando costi clientelari e spendendo meglio le risorse disponibili.
Se vogliamo uscirne con le ossa non più rotte di quanto già non siano dovremo trovare il modo di far capire in Europa che un’economia italiana sana e competitiva, specie sui mercati extra-Ue, è interesse anche dei nostri partner europei. E senza indugi abbracciare una cultura della competenza e dell’efficienza in cui non possano più trovare spazio favoritismi, clientelismi, forme di corruttela e comportamenti criminosi di ogni genere, evasione fiscale compresa. Certo sarà difficile che l’attuale governo del “fare” (poco poco, piano piano) riesca in una simile rivoluzione culturale, visto che i suoi membri rappresentano integralmente una generazione di politici (e relativi referenti nel mondo delle imprese e delle banche) che è nata e cresciuta all’interno del modello culturale del “capitalismo familiare” all’italiana. Quel capitalismo che col caso Ligresti sta finendo dietro le sbarre ma che ha ancora vasti agganci in tutta la Penisola e non solo.
Altre strade tuttavia non esistono: scaricare gli oneri di chi ha sbagliato ieri sulle spalle di chi dovrà tentare di godere di qualche beneficio domani non è più possibile, evitare di innovare aziende, modelli organizzativi, politiche economiche è altrettanto impossibile, abbattere la mole di adempimenti fiscali (complicati oltre che costosi) in cambio di rapporti più trasparenti tra contribuenti e fisco è ugualmente necessario. Non si tratta di cercare un migliore modello di sviluppo economico o sociale, si tratta di sopravvivere: per riuscirci dovremo tornare a vedere un Pil crescere almeno del 2%-2,5% all’anno in termini reali, ovvero del 3,5%-4% in termini lordi (visto che l’inflazione, oggi all’1,2%, non risalirà oltre l’1,5% ancora per molto tempo, complici i rialzi delle tasse indirette come le accise e l’Iva che deprimono i consumi, notavano ancora venerdì scorso gli analisti di Morgan Stanley). Per farlo è impossibile limitarsi a “tirare a campare”.