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Opinioni

Il “contratto di governo” Lega-M5S è populismo penale che calpesta il diritto e i diritti

Il contratto (che contratto non è) di Salvini e Di Maio propone un “sistema giustizia” più efficiente (senza spiegare come) ma anche criminalizzazioni generalizzate, pene più dure, licenza di uccidere sotto il nome di legittima difesa. È davvero accettabile negare principi giuridici con il pretesto della sovranità popolare?
A cura di Roberta Covelli
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Il "Contratto per il governo del cambiamento" è ormai definitivo ed è al vaglio della base elettorale della Lega (quella del M5S si è già espressa a favore dell’accordo). A caratterizzare il documento, oltre ai vari contenuti politici, c’è un’ostentazione di lessico giuridichese che dovrebbe indicare una conformità al diritto che invece manca, nella forma e nella sostanza.

Quanto alla prima, il tecnicismo emerge già dalle parti del documento sulla autenticazione delle firme, dalla postilla sul trattamento dei dati sensibili, dal riferimento ai contraenti. In realtà, già la definizione dell’accordo mostra un uso disinvolto quanto scorretto di termini giuridici: secondo il codice civile, infatti, per contratto si intende "l'accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale" (art. 1321 c.c.). Ma l’elemento della patrimonialità è decisamente marginale, quando non indeterminato o inesistente, nell’accordo tra Di Maio e Salvini: e infatti, nonostante la reticenza delle parti, il Contratto per il governo del cambiamento resta a tutti gli effetti un’alleanza politica post-elettorale.

Il problema non è solo nell’etichetta, però: anche i contenuti hanno diverse dissonanze con i principi del diritto ed è allora il caso di affrontare almeno il capitolo sulla giustizia con il rigore che la materia richiede.

Il capitolo Giustizia rapida ed efficiente, dodicesimo sui trenta totali, propone quattro pagine di proposte distinte in nove paragrafi. Si tratta perlopiù, come per il resto dell’accordo, di dichiarazioni d’intenti, nemmeno particolarmente precise, prive di qualunque riferimento alle coperture a cui attingere per attuare le promesse. Così, è possibile fissare obiettivi anche condivisibili proprio perché vaghi: la revisione del sistema di elezione del Consiglio superiore della magistratura, la rivisitazione (sic) della geografia giudiziaria, l’implementazione del processo telematico e dell’informatizzazione degli uffici giudiziari, la piena funzionalità del "sistema giustizia", ma anche il "completamento delle piante organiche di magistratura e del personale amministrativo degli uffici giudiziari", il trattamento previdenziale e assistenziale dei magistrati onorari, l’ammodernamento delle carceri. Altri temi vengono citati, ma con una genericità tale da renderne impossibile la valutazione: l’accessibilità della giustizia civile, la riorganizzazione in materia di diritto di famiglia, reati ambientali, tutela degli animali, giustizia tributaria. Il tema della lotta alla mafia, che in campagna elettorale era stato trattato dal M5S in poche righe, insieme alla corruzione, e a cui la Lega di Salvini non aveva dedicato nemmeno una parola, viene trattato in otto righe: potenziamento degli strumenti normativi e amministrativi di contrasto della criminalità organizzata e di aggressione ai patrimoni di provenienza illecita. Come per gli altri punti, è intuibile l’obiettivo, ma non è chiaro come si intenda raggiungerlo.

La vaghezza è però forse meno preoccupante della chiarezza che caratterizza altri punti, specie in materia penale. L’inasprimento delle punizioni è la soluzione generale, slegata, oltre che dall’idea costituzionale di pena, dai fatti e dalla logica. Primo, perché manca una correlazione provata tra severità delle pene e deterrenza: anzi, nella scelta del singolo di delinquere la consapevolezza di una dura punizione influisce meno di altri fattori. Secondo, perché la certezza della pena (titolo peraltro di un paragrafo dell’accordo) vacilla di fronte alle proposte di procedura penale dell'accordo di governo: si vorrebbe infatti eliminare la possibilità di rito abbreviato per reati particolarmente gravi e, nel contempo, riformare la prescrizione per "ottenere un processo giusto e tempestivo". Il divieto di ricorso al rito abbreviato, unita alla riduzione dei termini di prescrizione, anche se accanto alla promessa  di "assunzioni nel comparto giustizia" (priva tuttavia di indicazioni sulle coperture), finirebbe per prolungare i tempi dei processi, con il fondato rischio che cadano in prescrizione anche quei reati gravi che si pretende vengano trattati con procedimento ordinario.

Nell'accordo di governo come in campagna elettorale, la politica leghista e pentastellata si appella alla percezione di insicurezza, finendo per dimenticare un obiettivo di base del diritto penale, specificato anche all’articolo 27 della Costituzione, ossia la rieducazione del condannato. Non si tratta di buonismo, ma di una scelta umana e logica, perché garantisce la dignità a tutti, da un lato, e, dall’altro, perché una società che recupera chi commette reati non deve poi temere chi viene condannato e sconta la sua pena. In questo senso si pongono scelte come la possibilità di estendere il trattamento penale dei minorenni ai giovani-adulti fino ai venticinque anni e la non punibilità per particolare tenuità del fatto (che nell'accordo Lega-M5S si dichiara di voler eliminare): con queste misure si evita una punizione che isoli il condannato e lo metta in contatto con un ambiente criminale da cui potrebbe essere assoldato, proprio per la combinazione tra esclusione sociale causata dalle mancate opportunità di reinserimento e maggior profitto derivante da comportamenti illeciti meglio organizzati.

La criminalizzazione alla base del sistema penale leghista-pentastellato, basato sul solo inasprimento della repressione, risponde allora a una concezione semplicistica del diritto penale: si tratta di un ritorno al diritto penale primitivo, con l’occhio per occhio, dente per dente che ha caratterizzato i primi ordinamenti sociali, dall’Antico Testamento al Codice di Hammurabi, che comunque non presentavano alti livelli di concordia sociale. Questi istinti giustizialisti peraltro sono stati assecondati anche dalle forze cosiddette moderate: basti pensare a leggi come l’introduzione dell’omicidio stradale, chiesta da anni dalle associazioni dei parenti delle vittime della strada e che ha paradossalmente (ma prevedibilmente) portato a un aumento delle omissioni di soccorso dopo gli incidenti. L’inasprimento delle pene per l’omicidio stradale e la previsione di questa nuova fattispecie di reato sono stati definiti da Luigi Manconi "un pessimo esempio di populismo penale".

Sdoganare il populismo penale è estremamente pericoloso, perché finisce anche per capovolgere la gerarchia dei beni meritevoli di tutela. È il caso delle proposte in materia di (eccesso di) legittima difesa: sulla base del cosiddetto "principio di inviolabilità della proprietà privata", l’accordo Lega-M5S propone di estendere la legittima difesa domiciliare "eliminando gli elementi di incertezza interpretativa (con riferimento in particolare alla valutazione della proporzionalità tra difesa e offesa)". La Convenzione europea dei diritti dell’uomo però è chiara: nel tutelare il diritto alla vita (art. 2), ritiene legittima l’uccisione dell’aggressore da parte dell’aggredito solo nel caso in cui essa risulti assolutamente necessaria per respingere la violenza. L’elemento della necessità (e proporzione) della difesa rispetto all’offesa pone dei confini di ragionevolezza a un’eccezione dell’ordinamento: la punizione dei reati spetta infatti all’autorità pubblica e torna tra le facoltà dei privati cittadini solo quando l’offesa sia attuale e non vi sia altra protezione che aggredire chi aggredisce. Non solo. Allargare a dismisura la legittimità della difesa significa porre la protezione del patrimonio al di sopra della persona, la tutela della proprietà privata prima del diritto alla vita, che spetta a tutti gli umani, anche ai delinquenti: l’unico caso in cui il diritto alla vita di qualcuno può essere sacrificato è per evitare la lesione del diritto alla vita di qualcun altro.

A questa confusione sul valore dei beni giuridici da difendere e alla volontà di inasprire le pene si aggiunge la tendenza ad anticipare la repressione: se il sistema penale ammette le pene solo di fronte alla commissione del fatto illecito, il sistema della sicurezza sta invece progressivamente slittando verso un approccio pre-crimine, che unisce le teorie della devianza (abbandonate con l’affermarsi dei principi democratici) a una generica e informe paura che legittima la prevenzione dei reati, non in senso sociale, attraverso l’educazione dei cittadini, ma con la repressione verso chi potrebbe commetterne. In questo senso si pongono sia fenomeni apartitici che potrebbero forse spiegare il successo dell’approccio securitario alle elezioni, sia la proposta dell’accordo Salvini-Di Maio (nel capitolo Immigrazioni: rimpatri e stop al business) di coinvolgere le comunità locali in caso di apertura di moschee, attraverso procedure individuate da una specifica legge-quadro (nelle versioni precedenti del contratto si prevedeva l’organizzazione di referendum preventivi). Così, da un lato, si ripropone la sovrapposizione tra stranieri e musulmani (come se non esistessero migranti cristiani o italiani islamici), dall’altro, si identificano le moschee come luogo di delinquenza, passando dal concetto di responsabilità penale personale alla criminalizzazione di un intero gruppo. L’anticipazione del momento di repressione del reato non è peraltro una novità dell’accordo Salvini-Di Maio: il Decreto Minniti, ad esempio, emanato in forza della "straordinaria necessità ed urgenza di introdurre strumenti volti a rafforzare la  sicurezza delle città e la vivibilità dei territori e di promuovere interventi volti al mantenimento del decoro urbano", con l’introduzione di istituti come il Daspo urbano e con l’ampiezza con cui prevede la possibilità di ordinanze dei sindaci contro il degrado, apre la strada alla criminalizzazione del disagio sociale, arrivando alla privazione di alcuni diritti di libertà in virtù dei concetti di sicurezza e decoro e finendo per confermare i presupposti su cui si basano le politiche proposte dall’accordo del governo di destra.

Questo tipo di repressione anticipata basata sulla devianza risponde a istanze popolari attraverso strumenti popolari (o populisti): il coinvolgimento delle comunità locali per decidere sulle moschee, ad esempio, riserva alla volontà di privati cittadini la decisione sui diritti e sulle libertà altrui, oltre che sulla loro presunta pericolosità, che dovrebbe essere questione affrontata soltanto dall’autorità pubblica.

Insomma, anche a voler guardare solo il capitolo sulla giustizia, l’accordo Lega-M5S si presenta vago negli elementi condivisibili e netto per le proposte di populismo penale che calpestano il diritto e, con esso, i diritti. È il popolo a chiedere l’inasprimento delle pene, la riduzione degli strumenti di reinserimento sociale dei condannati giovani-adulti, la punibilità dei reati di particolare tenuità, il divieto di aprire moschee, il diritto di sparare senza proporzione tra pericolo e difesa? A giudicare dal risultato elettorale e dal plebiscito sulla piattaforma Rosseau, forse sì. Ma, per tornare alle basi del diritto, la maggioranza non ha poteri illimitati: la sovranità appartiene sì al popolo, che però, è il caso di ricordarlo, "la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione".

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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