Grande rimbalzo di UniCredit oggi in borsa: tutto passato, gli investitori hanno cambiato idea sull’aumento di capitale? Le Fondazioni hanno trovato i soldi per evitare di finire diluite? A dir la verità non sembrerebbe nulla di tutto questo, ma solo del frutto di voci (interesse da parte di fondi sovrani cinesi, anzi no kazaki, anzi no di investitori tedeschi o francesi, ma anche di qualche "signor nessuno" pronto a investire senza batter ciglio un centinaio di milioni di euro per continuare a non contar nulla in termini di governance) che, guarda caso, opportunamente giungono a ridare un po’ di fiato al titolo dopo il pesante ceffone rimediato all’apertura di un’operazione che ha fatto preoccupare un bel po’ di banchieri in tutta Europa, non solo a Milano.
La decisione di varare l’aumento, come si ricorderà, è infatti giunta dopo maxi svalutazioni per oltre 10,6 miliardi di euro effettuate nel terzo trimestre 2011, svalutazioni che non è detto non possano essere seguite da ulteriori “write off”: visto come il mercato ha reagito, commentano su Bloomberg alcuni analisti, è probabile che le “banche zombie” che pure dovrebbero far pulizia nei propri bilanci (un nome a caso? Che ne dite di Commerzbank, per la quale la stampa tedesca ricorre all’ipotesi rocambolesca di un “aiuto” da parte di Allianz sotto forma di conversione dei 750 milioni di euro di titoli ibridi senza diritto di voto ricevuti come forma di pagamento nel 2008 al momento della cessione di Dresdner Bank, titoli che l’Eba non considera nel calcolo del “core capital” e che si vorrebbero convertiti, non si sa in base a che rapporto, in titoli ordinari?) cercheranno di tirarla più alla lunga possibile, pur avendo tra le pieghe dei propri conti un vasto assortimento di scheletri e cadaveri il cui valore è se non nullo ormai una frazione minima di quella a cui è tuttora iscritto in bilancio.
Lo stesso UniCredit, come detto, rischia grosso: non solo l’aumento di capitale potrebbe comunque registrare un elevato inoptato, scaricando sulle spalle del consorzio di banche guidato da Bank of America Merrill Lynch e Mediobanca (poco meno di una trentina in tutto gli istituti coinvolti, tra cui Societe Generale che guarda caso ha offerto un finanziamento, condito di opzioni “put” e “call” per limitare i rischi di ambo le parti, a uno dei soci “riluttanti” di UniCredit, Fondazione Cassamarca, altrimenti impossibilitata a mettere mano al portafoglio per 55 milioni di euro, somma necessaria a confermare il proprio peso all’attuale 0,7% di capitale), che dovrebbero quindi trovare investitori a cui girare i titoli stessi cercando di non perdere soldi nella transazione (cosa che può essere evitata cercando di guadagnare soldi facendo trading “a leva” su opzioni legate ai titoli stessi). In più UniCredit, che a fine settembre aveva in bilancio 950 miliardi di euro di asset, potrebbe dover procedere a nuove svalutazioni (in particolare restano sotto la lente degli investitori quei 48 miliardi di risk weighted asset “in bonis” che la banca a settembre ha definito “non più core” e di cui intende disfarsi via via che giungeranno a scadenza).
Non per questo le alternative sono molte: lo sanno bene Mps, Banco Popolare e Ubi Banca, che dovranno trovare il modo di rafforzare il patrimonio in altro modo se non vorranno chiedere nuovi soldi al mercato (non essendo in grado i loro azionisti di riferimento di metterci altri quattrini in misura significativa a breve), ma lo sanno bene pure i potenziali acquirenti di immobili, mutui cartolarizzati e attività “non strategiche” destinate a finire sul mercato. Lo hanno del resto scoperto anche frequentatori storici dei “salotti buoni” italiani come i Ligresti, finora aiutati proprio da Mediobanca e UniCredit e ora costretti o a trovare soldi o, più probabilmente, a farsi da parte sotto la pressione degli stessi “ex amici” che si sono improvvisamente resi conto di aver offerto credito con eccessiva generosità.
Una domanda sola rimane sullo sfondo senza per ora trovare riposta: di chi la colpa di tutto questo, dell’ingordigia dei manager pro tempore al comando di aziende e banche o dell’avidità di imprenditori e azionisti “di riferimento”? E che tipo di provvedimenti si potranno mai prendere in un prossimo futuro per cercare di rivalersi di eventuali condotte scorrette che abbiano causato danni agli azionisti di minoranza? Domande che temo rimarranno, specie in Italia, senza risposta ancora per qualche tempo, se non per sempre, mentre sullo sfondo le banche zombie italiane e mondiali cercheranno di trovare una via di fuga che consenta ai loro vertici e ai loro azionisti di controllo di pagare il prezzo minore possibile. Sempre che una tale via di fuga esista, cosa di cui non sono certo.