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Opinioni

Il caso Rcs conferma la crisi del capitalismo italiano

Rcs Mediagroup potrebbe aprire il capitale ad un gruppo estero per riuscire a superare la crisi in cui si dibatte da tempo. Per il capitalismo familiare italiano è tempo di cambiare pelle o finirà con l’essere spazzato via…
A cura di Luca Spoldi
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DeBortoli

Qualcuno inizia a sospettarlo, alla buon ora: il “capitalismo familiare” italiano, un capitalismo da sempre ricco di relazioni e povero di capitali (che quando ci sono stanno ben stretti nelle mani degli azionisti di maggioranza, anche quando il controllo è conservato attraverso patti di sindacato e lunghe catene societarie, al solo scopo di mantenere il potere senza dover spendere più che tanto), messo alle strette da oltre 15 anni di crescita reale nulla o negativa e dalla doppia “stretta” sul debito pubblico e su quello privato promossa dall’Eurozona germano-centrica, sembra essere alle sue ultime battute. Da questo punto in avanti o saprà cambiare o è destinato a passare la mano, con buona pace di quanti ogni volta strillano allo scempio di un’Italia in vendita, dei barbari che calano dal Nord Europa (o dall’Asia) per fare ricchi bottini spendendo a volte “due ceci e quattro fave” per dirla come un celebre motto popolare, della tradita “italianità” delle nostre aziende.

I fatti sono ormai sotto gli occhi di tutti e se fino a un anno fa ero tra i pochi a segnalarvi come di fatto fossimo già falliti senza che nessuno ce l’avesse detto, ormai non passa giorno che non si racconti della gara tra Ppr e Lvmh per rilevare il controllo di Pomellato, delle (ormai svanite) avances di Air France per Alitalia, dell’offerta (al tribunale fallimentare di Firenze) di Gucci (altra controllata di Ppr) per Richard Ginori (nel frattempo dichiarata fallita lo scorso gennaio). E se prima si erano segnalati gli “addii” di Edison (fagocitata dal colosso francese dell’energia, EdF), di Parmalat (finita in mano, con la relativa cassa, ai francesi di Lactalis), di Ducati (che invece ha preferito accettare l’offerta dei tedeschi di Audi-Vokswagen), a breve potrebbe essere la volta di Rcs Mediagroup, che per riuscire ad assicurarsi quell’aumento di capitale necessario a superare la crisi potrebbe ricorrere ad un “cavaliere bianco” sotto le vesti del partner “industriale” estero (si è parlato del gruppo tedesco Axel Springer, che però ha smentito), così come già Telecom Italia aveva fatto ricorso alla spagnola Telefonica (che ora sembra tentata dal passare la mano, specie se il ventilato matrimonio con 3 Italia, controllata del gruppo cinese Hutchinson Whampoa, dovese andare in porto con l’emissione di nuovi titoli a fronte del conferimento delle attività del quarto gestore mobile italiano).

In realtà il problema del capitalismo italiano non è solo legato alla scarsità di capitali (anche se questo certamente è un tratto caratteristico di molte aziende tricolori, grandi, medie o piccole che siano, rispetto ai loro concorrenti internazionali). Anche la maggiore difficoltà di accesso al credito (che è anteriore alla crisi attuale e che si lega ai guasti causati da decenni di “politicizzazione” degli istituti italiani e ai numerosi intrecci “incestuosi” tra industriali e banchieri, fenomeni che hanno fatto sì che molte banche si siano sovraesposte rispetto a pochi gruppi “amici” e abbiano invece lesinato credito a molte aziende emergenti non altrettanto “conosciute”), i limiti del sistema Italia (fisco opprimente, burocrazia, malavita, malapolitica) e una tendenza di fondo da parte del mondo politico ad affrontare i problemi dell’economia sempre e solo in caso di emergenze, quando si tratta cioè di salvare il salvabile di aziende e settori spesso ormai decotti (i casi delle miniere del Sulcis o delle acciaierie dell’Ilva sono emblematici non meno delle periodiche litanie riguardanti la sorta degli stabilimenti di Fiat o di altri gruppi industriali italiani), senza saper guardare al futuro e incentivare lo sviluppo di nuove attività ed imprese.

Si può uscire da questo circolo vizioso che sta contribuendo a impoverire gli italiani, imprenditori, liberi professionisti o lavoratori dipendenti o indipendenti che siano,  (per non parlare di “tutti gli altri” che non riescono proprio a trovarlo un lavoro), depauperando le attività industriali del paese? Io penso di sì e penso che la crisi, in fondo, è un’occasione da cogliere a patto di saperlo e volerlo fare. Contro una trasformazione e un rilancio dell’economia tricolore giocano tuttavia fattori importanti, inerzie di natura demografica e politica, centri di potere che non intendono farsi da parte, salvo a volte che all’apertura di fasi successorie. Seguiamo dunque la vicenda Rcs Mediagroup come l’ennesima cartina di tornasole del nostro capitalismo sempre più antico e sempre meno vigoroso, augurandoci che si trovi una soluzione innovativa. Le speranze non sono molte, in verità, ma vale la pena di tenere d’occhio Via Solferino, forse persino più che non Montecitorio.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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