Milena era una donna dall’aspetto aggraziato. Su quel viso a forma di diamante si stagliavano due occhi trasparenti, ridenti, del colore dell’acqua. A vederla camminare per strada con il suo sorriso dolce, i bambini per mano e i sacchi della spesa al braccio, chiunque avrebbe pensato che quella era una moglie premurosa, una madre responsabile, una donna educata. Perché non c'era, al mondo, qualcuno che conoscesse l’inferno che le bruciava dentro. Nessuno poteva immaginare quello che Milena faceva quando nessuno la vedeva.
Chi è Milena Quaglini
Nata nel 1957 in una famiglia modesta a Mezzanino Po, in provincia di Pavia, era cresciuta in una casa in cui calci, insulti e schiaffi erano all'ordine del ogni giorno. Quel padre padrone aveva anniento sua madre e gettato dentro di lei i semi del male. Nonostante l'infanzia difficile era riuscita a diplomarsi in ragioneria e a trovare un lavoro come contabile in una società d'impianti idrosanitari. Lì aveva conosciuto Enrico, quello che sarebbe diventato il suo compagno. Dieci anni più vecchio di lei, separato, non era esattamente il partito che i suoi genitori avrebbero desiderato per lei, ma i due si sposarono lo stesso e Milena diede alla luce Dario. Enrico, malato di diabete, morì dopo i primi anni di matrimonio. Milena rimase sola, ma non si diede per vinta. Cercò un nuovo lavoro che potesse consentirle di vivere con il figlioletto senza tornare nella odiosa casa paterna. E lo trovò.
Mario Fogli, il marito violento
Capace e intelligente al di sopra della media, Milena diventò in poco tempo caporeparto del centro commerciale di Pavia. Lì incontrò Mario, anche lui separato, anche lui più vecchio di dieci anni. Nel 1992 Milena era di nuovo incinta. Quando la bimba nacque suo marito cominciò a mostrare insofferenza verso Dario, tanto da confinarlo a dormire in garage. La famiglia dalla quale Milena era scappata da giovane, per ironia della sorte si riformò, identica, attorno a lei. Mario divenne violento e lei cominciò a bere. Quando nacque anche la seconda figlia la situazione era ormai drammatica: Mario non riusciva a tenersi un lavoro, era pieno di debiti.
La prima vittima, Giusto Dalla Pozza: il suo stupratore
Dopo l'ennesima sfuriata Milena se ne andò di casa e trovò un lavoro come addetta alle pulizie in una palestra. I soldi erano sempre pochi, così quando incontrò Giusto Dalla Pozza, 80 anni e lui le propose di pagarla perché lo accudisse, lei accettò. Dalla Pozza sembrava molto sensibile ai suoi problemi finanziari, tanto che le propose un prestito di quattro milioni di lire. Un giorno, però, quell'uomo disinteressato le chiese indietro il denaro. "Cosa pensi che ti abbia dato i soldi a fare? Sei una stupida, non hai capito niente". La afferrò per un braccio e la spinse sul letto, tentando di violentarla. Milena prese una lampada e lo colpì forte, così forte che cadde a terra in un lago di sangue. Fuggì. Poche ore dopo tornò sul luogo del delitto, completamente cambiata, consapevole, pronta a gestire le conseguenze di ciò che aveva fatto. Avvertì la polizia spiegando di aver trovato l'anziano a terra, forse vittima di un'aggressione o una rapina. La storia venne archiviata come incidente e Milena fu libera di tornare alla sua vita. Lo fece tornando dal suo carnefice, dal marito Mario. L'uomo accettò di riprenderla in casa, ma dopo un po' ricominciarono i maltrattamenti. Fino a una notte.
"Polizia? Ho ucciso mio marito"
Negli anni che erano stati insieme Mario le aveva fatto di tutto. L’aveva schiaffeggiata, picchiata a pugni e calci, le aveva rotto un timpano e due denti. Milena aveva sopportato paziente le angherie di quell’uomo. Anche quel giorno erano volati insulti, quelli di sempre, e gli schiaffi. Mario aveva imprecato contro di lei e poi era andato a dormire tranquillo, nel letto della loro camera matrimoniale, perché non era successo nulla di diverso dal solito. Milena, però, era diversa. Quella pazienza che pareva inesauribile era finita tutta quella sera, senza possibilità di recupero. La transizione da vittima a carnefice si era compiuta. Milena gli legò mani e piedi, poi, afferrò il cordino di una tapparella e glielo avvolse intorno al collo, cominciando a tiare con una forza che nessuno si sarebbe aspettato da quel corpicino minuto. Per Milena da allora in poi sarebbe stato sempre così: avrebbe sopportato tutti i dolori, i soprusi, poi, all’ultimo schiaffo, al più insignificante dei graffi avrebbe reagito con una ferocia dieci volte superiore all'offesa. Quella sera trascinò il cadavere del marito sul balcone, lo coprì perché i vicini e i suoi figli non lo vedessero e chiamò la polizia. Era completamente cambiata, la rabbia spenta. Una voce flebile e piangente disse al centralino: "Ho ucciso mio marito".
Dalla corda al veleno: il secondo omicidio
Quando arrivò la polizia confessò subito tutto, senza trascurare i dettagli, come se raccontasse una scena vista dall'esterno. Era dispiaciuta, ma non pentita. Il giudice la condannò a 14 anni per l’omicidio del marito, pena poi ridotta a sei, per seminfermità mentale e infine convertita in detenzione domiciliare. All'uscita dal carcere, però, Milena non sapeva dove andare. Bussò alla porta della madre, ma lei non ne volle sapere di quella figlia assassina. L'avvocato di Milena, allora, le trovò alloggio in una comunità, ma lei cominciò a bere e venne cacciata anche da lì. Senza più risorse tentò una soluzione improbabile: rispose a un'inserzione su un giornale per una convivenza. Cinquantenne dinamico, divorziato, longilineo, casa propria, cerca compagna socievole, massimo quarantenne, per amicizia, convivenza, poi si vedrà. È così che Milena incontrò Angelo Porrello, pregiudicato per abusi sessuali su minori, la sua terza vittima.
Angelo Porrello: la terza vittima
Il 5 ottobre 1999 lo uccise nella sua casa di Bascapè. Un giorno, Porello l'aveva sbattuta sul letto e l'aveva stuprata per due volte. Milena aveva sopportato, in silenzio, poi si era alzata: "Vuoi un caffè?". In cucina aveva condito quella tazzina con un flacone intero di ‘Minias', potente sonnifero. Porello era caduto addormentato come un pupazzo: a quel punto lo aveva trascinato nella vasca da bagno, per annegarlo. Qualche giorno dopo si fece arrestare per violazione degli arresti domiciliari, in modo da essere in carcere quando la polizia avrebbe ritrovato il corpo di Porello in avanzato stato di decomposizione, giorni dopo, dentro una concimaia nella sua villetta. Questa volta furono le forze dell'ordine a risalire a lei attraverso delle lettere scritte all'uomo.
L'epilogo
Per Milena si aprirono le porte del carcere di Vigevano. Confessò immediatamente tutti i delitti spiegando che, no, non era un'assassina, ma una vittima. "Quando qualcuno reagisce male, io reagisco peggio" disse la pluriomicida Milena Quaglini, che nella sua cella del carcere femminile sembrava aver ritrovato serenità. Dipingeva tranquilla, diligente, tanto che i terapeuti erano ormai convinti che stesse progredendo nel recupero. Una notte, all'una passata, Milena prese un lenzuolo della sua cella, lo ridusse a strisce e si circondò il collo con una di queste. Poi entrò nell'armadietto in acciaio, dove legò il cappio al gancio per appendere gli abiti, sollevò le gambe e si lasciò strangolare. "Non ce la faccio più, perdonatemi, la mamma", aveva scritto ai figli. Alla due di notte la serial killer Milena Quaglini morì arrendendosi al male, quello che si portava dentro e quello che le avevano inferto gli uomini che aveva incontrato. Il suo resta l'unico caso, in Italia, in cui una donna vittima di abusi sia diventata carnefice dei suoi aguzzini.