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Il 17 marzo: la Festa Nazionale è ormai un caso politico e non solo

Non accennano a placarsi le polemiche intorno alla Festa Nazionale del 17 marzo, proclamata per festeggiare l’Unità d’Italia ma contestata da parte del mondo politico ed imprenditoriale.
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Il 17 marzo del 1861 a Torino, il Parlamento proclama l'Unità d'Italia e Vittorio Emanuele II assume il titolo di re d'Italia. A 150 anni di distanza questa data è ormai terreno di scontro politico ed intellettuale. Tuttavia, in questo caso non si tratta del (non) sempre interessante e costruttivo dibattito sull'evoluzione dello Stato e sui limiti e le conseguenze del processo di costruzione dell'identità nazionale, nè di una discussione intorno all'attualità dei valori fondantil'Unità d'Italia e neppure dell'analisi storica delle cause e degli effetti legati alle vicende risorgimentali. Già, perchè quello che nelle ultime settimane infiamma il dibattito politico è un aspetto ben più pratico e concreto (ma ne siamo sicuri?): è giusto non lavorare il 17 marzo? è giusto che i ragazzi abbiano una giornata di vacanza in più?

Dopo l'annuncio del sottosegretario Letta della Festa Nazionale programmata per il 17 marzo 2011, in effetti, non sono mancate le critiche, le scelte in dissenso e le dichiarazioni provocatorie. A partire dagli ambienti vicini alla Lega Nord (forse dimentichi di far parte dello steso Governo del buon Letta), con il Ministro Roberto Calderoli preoccupatissimo al che si "festeggi lavorando", raccogliendo così l'invito della Presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, che aveva sottolineato qualche ora prima la necessità di non contribuire ulteriormente ad affossare il PIL in questo periodo di crisi. Come spesso accade negli ultimi tempi, alla voce di personaggi influenti, si somma il coro degli esperti in "dichiarazioni successive" e "smentite di ordinanza", pronti a ribadire, riconsiderare, sottolineare e rilanciare tali considerazioni. E come altrettanto spesso accade in determinati ambienti politici i "professionisti del distinguo" si sovrappongono agli "indignati", ai "duri e puri", in uno stucchevole ping pong di considerazioni e valutazioni sulla convenienza, necessità e valenza di una Festa Nazionale in uno dei giorni simbolo dell'Unità Italiana.

Eppure, l'occasione, come fatto notare da qualche editorialista "fuori dal coro", potrebbe davvero spingere a riflessioni di un certo spessore, sia da un punto di vista complessivo che relativamente a quel "mutamento di prospettiva" che riguarda ad esempio la sinistra italiana. Ci hanno provato nelle ultime ore sia Adriano Prosperi su Repubblica sia (in parziale contrasto) Luca Sofri nel suo blog. Prosperi infatti, sottolinea quanto il discorso sulle "8 ore di lavoro perso" diventi insignificante e quasi paradosssale se paragonato al senso profondo del

"pensare tutti almeno per un attimo che quel giorno è diverso e saranno portati a soffermarsi su quel pensiero. Scopriranno che quel giorno è la loro festa: di tutti loro in quanto italiani, perché in Italia sono nati, vi abitano, vivono e lavorano. Per questo la festa deve esserci. La dobbiamo alle generazioni passate e a quelle future. E deve essere pubblicamente dichiarata e rispettata. Non ascolteremo chi vuole convincerci a sostituire il fatto pubblico con un fatto privato o un pensiero individuale, a riporre il senso dell´appartenenza e l´impegno ad affrontarne i problemi del paese nascondendo quel pensiero nel dominio segreto delle intenzioni, trasformandolo chi vuole in voto da formulare “in interiore homine”. Sarebbe uno schiaffo al paese e in primo luogo a chi degnamente lo rappresenta nel mondo e si è impegnato a tutelarne i diritti e a farne osservare i doveri" – E del resto non meritano nemmeno considerazione le – "oci ostili dalle regioni dove comandano parti politiche che si desolidarizzano dalla responsabilità della nazione pur attingendo alle sue risorse e si inventano appartenenze e identità patrie di pura fantasia. Hanno parlato coloro che concepiscono la politica come arte dell´alzare muri divisori e si inventano religioni del sole delle Alpi e del fiume Po mentre baciano sacre pantofole prelatizie".

Di diverso avviso invece Luca Sofri, che probabilmente in maniera opportuna giudica "una grande fesseria la battaglia" per un semplice ponte. Tuttavia, dove le due interpretazioni divergono in maniera profonda è sul senso stesso di una simile ricorrenza: "Che adesso una festa che non c’è mai stata e che mai ci sarà debba diventare fondamentale per la difesa della patria e della sua unità ha a che fare solo con la sudditanza di sinistra all’abbassamento del livello del dibattito da parte della destra". Tra l'altro si tratta finanche di un simbolo "creato" e che rischia invece di far passare in secondo piano "la riflessione sui contenuti, sulle cose, sulla loro realtà" finchè, "a forza di fare barricate sui simboli, si svuotano i simboli, guardi sotto, e l’Italia non c’è più". Insomma, in questi termini il dibattito si rivela estremamente interessante e preclude anche ad una serie di considerazioni ulteriori che non possono non chiamare in causa il radicamento dell'identità nazionale, la distanza fra Stato e società e così via discorrendo. Insomma, la Marcegaglia ci perdonerà ma di fronte a tutte queste considerazioni non possiamo non concordare con Giorgio Ruffolo sempre di Repubblica: Davvero in questi 150 anni della nostra storia non ci siamo guadagnati nemmeno otto ore per festeggiare la nostra unità nazionale?

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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