Occhi puntati su Ibm a Wall Street e non solo. In serata, dopo la chiusura della seduta regolare della borsa di New York, “big blue” diffonderà i risultati del quarto trimestre 2013, ma l’attenzione attorno al colosso di Armonk non riguarda questa volta solo i numeri degli ultimi tre mesi dell’anno passato, quanto il futuro prossimo venturo delle sue attività nel settore dei server. Secondo indiscrezioni che rimbalzano da qualche giorno sui siti e sulla stampa specializzata americana, Ibm starebbe per cedere ai cinesi di Lenovo la famiglia di server “low end” x86, macchine usate tipicamente nei sistemi informatici delle aziende di mezzo mondo.
Tra Ibm e Lenovo i contatti durano da molti anni visto che proprio ai cinesi il gruppo americano aveva ceduto nel dicembre 2004 la propria divisione personal computer e il marchio Thinkpad (lanciato da Ibm nel 1992 ed utilizzato da clienti del calibro della Nasa anche a bordo dello Space Shuttle e della Stazione Spaziale Internazionale) per 1,75 miliardi di dollari, formando una joint venture della quale aveva mantenuto una quota di poco inferiore al 20%. Curiosamente, pur avendo all’epoca acquisito il diritto a utilizzare il marchio Thinkpad per cinque anni, Lenovo lo sostituì col proprio già a fine 2007, per poi spostare fisicamente la produzione dei personal computer in Giappone, affidandola a Nec.
Secondo gli analisti la divisione server “low end” di Ibm potrebbe ora valere tra i 2,5 e i 4,5 miliardi di dollari e già lo scorso anno avrebbe potuto passare di mano se non fosse che proprio l’ampio range di valore tuttora indicato testimonia come sia stato difficile trovare, dopo mesi di trattative, un’intesa sul prezzo. La transazione era peraltro nell’aria appunto da un annetto e va nella direzione strategica già tracciata da entrambe le aziende, con Ibm impegnate a uscire progressivamente dai business a minore marginalità e dalla produzione di hardware (nonostante sia stata proprio Ibm a lanciare il primo personal computer sul mercato consumer, nel 1981) e Lenovo che cerca di sottrarsi alla crisi dei pc, testimoniata del resto anche dagli ultimi numeri di Intel, allargando la propria offerta a macchine di classe superiore (i server aziendali, appunto).
La morale della storia è evidente e dovrebbe essere tenuta a mente da un paese come l’Italia che con Olivetti ha saputo in passato recitare un ruolo importante nel settore delle macchine per scrivere prima, delle calcolatrici poi e dei primi personal computer negli anni Ottanta, ma che puntualmente non ha mai saputo investire in innovazione e accettare l’uscita da settori e produzioni mature e l’investimento in nuove produzioni e nuove tecnologie. Col risultato che mentre Ibm, con 12 centri di ricerca sparsi per il mondo, è ancora tra i maggiori datori di lavoro degli Stati Uniti (a fine 2012 aveva 435 mila dipendenti in giro per il mondo di cui 100 mila negli States), avendo mantenuto da 20 anni il titolo di “campione” per quanto riguarda il numero di brevetti generati da una singola azienda, Olivetti di fatto ha cessato di esistere nel 2003.
In quell’anno la società, che pure grazie al “Programma 101” del 1964 poteva vantare la primogenitura assoluta nel campo dei personal computer, è stata infatti incorporata nel gruppo Telecom Italia dopo che il duo Colaninno-Gnutti (che in cordata con altri piccoli imprenditori tramite la holding lussemburghese Bell aveva ottenuto il controllo di Olivetti e a cascata di Telecom Italia nel 1999) aveva ceduto (nel 2001) alla Pirelli di Marco Tronchetti Provera e alla famiglia Benetton il controllo della società di Ivrea e dell’ex monopolista telefonico italiano, che però nel 2005 decide di riportare in vita il marchio come fornitore di prodotti e servizi di information technology.
Morale della storia: a fine 2012 Olivetti contava 682 dipendenti e ha registrato un fatturato di 279 milioni di euro, di cui il 43% all’estero; Ibm dovrebbe invece aver chiuso il 2013 con un fatturato di oltre 100 miliardi di dollari (peraltro leggermente inferiore a quello del 2012) ed un utile netto di 18,4 miliardi (dai 16,1 miliardi del 2012). Domanda: poteva andare diversamente, nel paese dove periodicamente si discute della strategicità delle miniere di carbone del Sulcis e degli altoforni dell’Ilva di Taranto? Certo, ma ci sarebbero voluti un altro modello di capitalismo che non quello familiare italiano, un altro modello del credito che non quello tricolore e una diversa cultura dell'innovazione. Cosa impensabili nel Bel Paese: in fondo non siamo mica l'America. O no?