"Le regole si interpretano. Quando serpreggia la paura si cade nel ridicolo. Gli elettori o si accolgono o si temono. Se qualcuno vuole venire al ballottaggio cosa facciamo? Lo prendiamo a calci? Gli dovremmo regalare un fiore, piuttosto. Il partito della sinistra gli fa fare il gioco dell'oca". A buttare l'ennesimo sasso nello stagno della polemica sulle regole del ballottaggio ci pensa Lino Paganelli, uomo di Renzi nel coordinamento delle primarie. Ma del resto, c'era da aspettarselo, dopo un primo turno all'insegna del politically correct e malgrado il modo diretto con cui i bersaniani hanno liquidato le prime richieste di modifica regolamentare. Ne scrive Menichini su Europa: "Il ballottaggio non poteva essere un pranzo di gala, infatti non lo è. […] Renzi pensa di dover andare giù duro e di poterselo anche permettere perché i risultati del primo turno hanno tolto di mezzo l'argomento atomico della sua estraneità al PD ed al centrosinistra".
Ed è questo uno degli aspetti di maggior rilievo del primo turno di queste primarie: chi ipotizzava di "liberarsi del nemico" ha sbagliato grossolanamente i suoi calcoli. Quella di Renzi è stata, come scrive Sardo su l'Unità, la "definitiva consacrazione di una leadership effettiva e popolare" e non è pensabile che il Partito Democratico resti lo stesso il giorno dopo il ballottaggio. Certo, tenere insieme le due anime del partito sarà compito gravoso ed estremamente complesso, chiunque vinca. Ma irrinunciabile, proprio se si vuole costruire una forza "moderna" ed in grado di vincere la sfida del governo e della rappresentanza. E in tal senso, paradossalmente potrebbe rappresentare un'occasione anche per Bersani: operare un vero e serio rinnovamento generazionale, non solo tra le figure di primissimo piano del partito ed allargare .
È l'eterno ritorno della questione rottamazione, stavolta sostenuta da oltre un terzo degli elettori del centrosinistra, a richiedere una discussione non più rinviabile. Così come non rimandabile è una seria analisi sulle dinamiche del consenso e su quanto incidano realmente notabili e professionisti della politica. Lo abbiamo chiesto con una certa insistenza a parlamentari e commentatori durante il lungo hangout di commento al primo turno delle primarie: "Come si spiega l'enorme differenza in termini di proporzioni tra sostegno dell'apparato e voto popolare?". Semplicemente con il fatto che le strade del consenso seguono ormai altri canali e non capire che il tempo dei baroni e delle truppe cammellate sta finendo sarebbe un errore clamoroso. Così come il sottovalutare i nuovi luoghi della politica, dai social network ai movimenti d'opinione. Luoghi in cui si è "nudi" a diretto contatto con i militanti. E nei quali mentire, rinviare o promettere non sono opzioni possibili. Bersani e la gran parte della sua gente, del resto, lo hanno capito da tempo. Il problema semmai è farlo capire a chi ancora ragiona in termini di spartizioni correntizie e rendite di posizione. A chi vede le primarie come "un problema". A chi pensa di poter attendere al coperto "in attesi che passi la bufera". A chi confonde inciucio con mediazione, nuovismo con progressismo e cooptazione con rinnovamento. Da una parte e dall'altra, sia chiaro.