“Oggi il popolo italiano ha parlato, e lo ha fatto in modo inequivocabile. Ha scelto in modo chiaro e netto e credo che sia stata una grande festa per la democrazia […] Non ce l’abbiamo fatta, non siamo riusciti a convincere la maggioranza dei nostri concittadini; abbiamo ottenuto milioni di voti, questi milioni di voti sono impressionanti ma insufficienti […] Nella politica non perde mai nessuno, non vincono ma non perde mai nessuno. Dopo ogni elezione resta tutto com’è. Io sono diverso, ho perso e lo dico a voce alta, anche se con un nodo in gola”.
In fondo, il senso di una giornata storica è tutto in questi tre passaggi del discorso con il quale Matteo Renzi ha annunciato le dimissioni dalla carica di Presidente del Consiglio: la netta sconfitta alle urne del referendum costituzionale determinata dall’enorme affluenza alle urne, il risultato "ottimo" in termini numerici del fronte del Sì, l'ammissione di responsabilità e il rispetto profondo della volontà degli elettori.
L’affluenza è stata determinante, dunque, come ampiamente previsto dagli analisti prima del voto. Ha votato il 68,48% degli aventi diritto, un dato vicino a quello registrato alle ultime elezioni politiche del 2013 e sideralmente lontano non solo da quello dell’ultimo referendum sulle trivelle (31,2%, ma lì contava il raggiungimento del quorum), ma anche da quello delle Europee (57,2%) e delle Regionali 2015 (52,2%).
Cosa ha spinto gli italiani a recarsi in massa alle urne? La posta in palio, senza dubbio: cambiare la Costituzione significa scavare nell’identità di un popolo e stimolarlo a rispondere, per quanto disincanto e disinteresse sembrino essere le coordinate per leggere la società italiana degli ultimi anni. La polarizzazione è un altro elemento che ha inciso molto: normalmente gli elettori indecisi o intenzionati ad astenersi sono in qualche modo spaventati dalle contrapposizioni accese, dagli scenari apocalittici; stavolta, invece, hanno pensato fosse un loro dovere scegliere, esprimersi o addirittura esporsi, hanno capito che le distanze erano nette, chiare e definite, e hanno preso posizione. La diffusione delle informazioni, anche grazie ai social network tanto bistrattati, è stata poi decisiva: una questione complessa è stata sviscerata nel dettaglio, ma anche parcellizzata, sminuzzata, resa digeribile e comprensibile da decine di articoli, approfondimenti e analisi; il buzz generato intorno a un argomento “tecnicamente ostico” è stato impressionante e ha raggiunto decine di milioni di persone; la marea di bufale, fake news e manipolazioni è stata accompagnata da un’altrettanto poderosa ondata di debunking, materiale informativo e divulgativo; l’attività dei siti di informazione è stata frenetica, quella delle pagine Facebook (di ogni genere e tipologia) pure, la presenza televisiva dei big della politica è stata martellante, le radio ci hanno inondato di materiale elettorale, insomma, per dirla tutta: il referendum era ovunque, nessuno era al sicuro. Tutto ciò anche come effetto collaterale di una delle campagne elettorali più lunghe della storia (per scelta del Governo, che ha usato la penultima domenica utile a norma di legge). Una campagna nervosa, frenetica, snervante, interminabile, sfiancante. Che si è inevitabilmente incentrata sulla cosiddetta "personalizzazione" del referendum, questione su cui tanto si è discusso in questi mesi.
"Renzi ha sbagliato a personalizzare il referendum". È stata questa, senza dubbio alcuno, la frase più usata e condivisa in questi mesi di campagna elettorale, tanto da finire per diventare una sorta di verità assoluta e, a giochi fatti, la spiegazione unica della sconfitta elettorale del Presidente del Consiglio. Una lettura che non ci ha mai convinto fino in fondo, anche perché, con una riforma approvata a maggioranza, tra mille polemiche e prove di forza, poi sostenuta (esclusivamente, in pratica) da una sola parte PD e dagli alleati personali del Presidente del Consiglio (Verdini, Confindustria, componenti sindacali), non si capisce quale altro destino potesse avere la campagna elettorale. La verità è che Renzi ha deciso di andare all in, di pushare i suoi resti, per usare il gergo pokeristico.
Ha scelto di giocarsi la partita incrociandola con la legge di bilancio, per avere più moneta da mettere sul piatto della bilancia. L’ha trasformata in una “missione politica”, legandola al destino del Governo e al progetto complessivo di riforma del Paese, tenendo dentro tutto, dalla riforma della scuola a quella del lavoro, dai diritti civili alla politica estera: la riforma come summa del renzismo e come snodo cruciale del futuro. Ha accelerato sul versante della sovrapposizione tra la figura del leader, dell’istituzione che rappresenta e del popolo che lo sostiene, calcando la mano sulle alterità e rilanciando in maniera ossessiva la contrapposizione “noi / loro”. Ha agitato lo spauracchio dell’instabilità, del salto nel vuoto, che tanto era stato funzionale alle Europee del 2014.
Ha sbagliato? Forse, a guardare i numeri. Ma lo ha fatto coscientemente, per calcolo, non per insipienza. Per continuare la metafora pokeristica, Renzi sapeva di avere in mano due assi, la miglior mano di partenza possibile, e ha scelto di giocarsi tutto.
E allora perché ha perso? Anche in questo caso il poker ci viene in aiuto. Se hai due assi e il tuo avversario ha due Re (la seconda mano più forte in assoluto), la probabilità che tu vinca è molto alta, più dell'80%; se giochi contro due Re, due Donne, due Fanti, due 10, le tue probabilità di vittoria scendono notevolmente; se giochi contro tutte le possibili combinazioni di carte, e in più gli assi rimanenti nel mazzo sono in mano ai tuoi compagni di partito e a un 80enne con cui la riforma l'avevi scritta, beh, allora le tue probabilità di vittoria crollano. E Renzi si è trovato solo, senza alleati, nel momento decisivo della partita, quando ha scelto di andare all in.
Si è battuto in maniera encomiabile, riuscendo, con uno sforzo immane, a mobilitare ampi strati di società, rosicchiando consensi e portando al voto la quasi totalità del suo elettorato. Il Sì, che tutti voi avete sovrapposto a Renzi, ha preso 12,7 milioni di voti, un’enormità. Non è bastato, perché contemporaneamente sono arrivati oltre 19 milioni di No, una spaventosa enormità.
Un dato così alto che non è possibile ricondurre soltanto alle forze politiche che hanno sostenuto il fronte del No. Forza Italia, Lega Nord, MoVimento 5 Stelle, Sinistra Italiana, Fratelli d’Italia certo hanno dato un contributo importante, ma c’è evidentemente stato un “supplemento d’anima” alla coalizione del No, sotto le cui bandiere si è ritrovato il Paese che non si riconosce in una lettura edulcorata della realtà, che non crede in un futuro roseo, che è stanco di promesse e che non si ritrova nella narrazione renziana. Sono i nuovi dimenticati, i nuovi esclusi, cui Renzi non è riuscito a parlare (o che ha finito con l'irritare). È una distanza culturale, sociale, generazionale, forse, che Renzi non è riuscito a colmare. Non è riuscito a farlo anche perché non è stato in grado di utilizzare fino in fondo la leva del cambiamento, vincolato a una riforma discutibile, piena di limiti e complessità.
Mentre il No faceva appello anche alle radici profonde del vivere comune, alla difesa di ideali sepolti ma non morti, al basilare istinto di conservazione delle regole democratiche, Renzi raccontava un futuro fatto di cambiamento e coraggio, di scelte e cambi di passo. Un orizzonte ideale che si scontrava con la realtà della vita quotidiana di troppe persone, fatta di piccole lotte e ancor più piccole conquiste. Renzi sventolava provvedimenti e misure concrete, come effetto del lavoro del Governo, disegnando un domani migliore a portata di mano, attraverso cose fatte, reali. Lo sguardo delle persone era rivolto a un presente fatto di piccoli contentini, che suonavano come beffe, come tentativi di comprare il consenso. Renzi scendeva nel populismo più gretto, annunciando bonus e prebende. Veniva ripagato con la sua moneta speculare: complottismo e disillusione. Basta un Sì per cambiare tutto, diceva Renzi. No, stavolta non ti crediamo, rispondevano. Slogan contro slogan: ma da una parte c'era un racconto, dall'altra la Costituzione.
La politica, però, non ama le semplificazioni e il voto restituisce sempre mille complessità. Perché se è vero che il messaggio di sfratto a Palazzo Chigi è arrivato forte e chiaro, è altrettanto vero che da lunedì non esiste più un fronte del No. Non c'è un blocco omogeneo e compatto alternativo, non c'è un progetto politico unico, non c'è una piattaforma ideologica capace di tenere insieme i 19 milioni di No, non c'è un preciso corpo sociale in grado di raccogliere l'eredità di questa giornata. Ci sono 19 milioni di No, non c'è il popolo del No.
Dall'altra parte, invece, c'è un percorso, una missione, un leader. Che è e resterà ancora in campo, salvo clamorose sorprese o grossolani errori di gestione. Ecco, prima di recitare l'estrema unzione alla carriera politica di Matteo Renzi, io ci penserei bene.