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Opinioni

Ha senso uscire dall’euro, sempre che non ci caccino prima?

Mentre qualche leader populista in Europa e in Italia torna ad agitare lo spettro di un’uscita dall’euro, la lentezza delle riforme e l’incertezza dello scenario macro rendono sempre più vicino il redde rationem sul debito pubblico..
A cura di Luca Spoldi
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Usciamo dall’euro, usciamo dall’euro, tuonano i tribuni populisti di mezza Europa, Italia compresa, in un refrain infinito della crisi che dal 2010 sta scuotendo le fondamenta stessa dell’unione monetaria (ma non ancora bancaria e certamente non politica) europea. Mostrandone la fragilità intrinseca, che nessun politico europeo contemporaneo sembra avere la capacità (e l’interesse personale) di sanare, rilanciando quell’idea di unione dei singoli paesi del “vecchio continente” che consentisse un domani di dar vita agli “stati uniti d’Europa”, diventando così un’area di libero scambio, ma anche un soggetto politico (e militare) credibile, in grado di contrapporsi agli Stati Uniti d’America e ai nuovi colossi emergenti dell’Asia (Cina e India sopra tutti), dell’Africa (a partire dal Sud Africa) e dell’America Latina (quanto meno il Brasile).

Inutile sottolineare ancora una volta quanto siano pericolose e scriteriate le “sirene” di questi moderni tribuni, che non offrono alcuna concreta soluzione alla crisi in cui l'Italia da tempo si dibatte, interessati solo a sfruttare il malcontento nato da una cattiva gestione di una crisi che si sta prolungando ben oltre i tempi “fisiologici” vuoi per l’insistenza tedesca nell’unica e sola ricetta della repressione fiscale (che come ampiamente dimostrato dalla teoria e dalla pratica funziona solo in momenti di crescita economica, mentre è distruttiva e dannosa in fasi di recessione), vuoi per la difesa di retroguardia di interessi di questa o quella lobby, casta, gruppo di amici, clientes e parentes da parte dei politici di tutta Europa (Germania inclusa, checché ne pensi una certa vulgata corrente). Per farla breve: l’euro è stato pensato come valuta unica, come area monetaria, nella quale “fondere” le preesistenti valute (e aree valutarie) nazionali, senza che nessuno avesse mai pensato a meccanismi per un’uscita “volontaria” nel corso del tempo.

Così uscire “volontariamente” non è semplicemente possibile, se non dopo aver contrattato una modifica di trattati la cui infrazione su basi unilaterali equivarrebbe, con sessant’anni di ritardo ma inevitabile analogo risultato, al patetico tentativo fascista di “spezzare le reni” alle odiose nazioni europee grazie alla “virtuosa” politica dell’autarchia. Che già tenta (con inevitabile identico destino fallimentare) un gigante dai piedi d’argilla come la Russia di Vladimir Putin, che scopre ogni giorno di più come il dipendere per una quota preponderante del proprio Prodotto interno lordo dalle esportazioni di gas naturale e petrolio rischi, nel momento in cui le quotazioni di tali materie prime sono in prolungata fase di calo come ora, di far precipitare allo stesso tempo il cambio, gli investimenti esteri nel paese, l’accumulo di ricchezza domestica. Col rischio di una futura bancarotta al quale non ci si può sottrarre urlando “guai agli speculatori” come pure in Italia, periodicamente, qualcuno prova a fare, non riuscendo o non volendo fare riforme strutturali, di sostanza, destinate a incidere nella cultura quotidiana dell’ex “bel paese” più che non solo sulla forma delle sue sovrastrutture politiche o finanche economiche.

Cosa ci costerebbe uscire dall’euro, nel frattempo sempre più svalutato nei confronti del dollaro (siamo a poco più di 1,22 livello che rende sempre meno attraente l'ipotesi di “ritorno alla lira” nella speranza di una mera svalutazione competitiva che avrebbe ora spazi ancora più limitati di quanto non potessero esistere con l'euro a 1,35 sul biglietto verde), non lo sa nessuno con esattezza, ma lo immaginano abbastanza bene economisti e operatori economici e si tratta di sofferenze calcolabili nell’ordine dei miliardi di euro, delle centinaia di migliaia di posti di lavoro a rischio, nel depauperamento forse definitivo di un’intera generazione. Che poi sulle macerie si possa ricostruire come dopo una guerra può esser vero, ma è uno scenario che nessuna persona sana di mente dovrebbe augurarsi. Ciò detto è evidente anche un’altra spiacevole verità di cui i grandi media parlano malvolentieri, anzi tendono a non parlare affatto, persino quando un'agenzia come Standard & Poor's taglia, come ha appena fatto, il rating sovrano italiano ad appena un gradino (un "notch") sopra il livello definito "cartaccia" il debito pubblico italiano, che se quel livello dovesse mai toccare potrebbe non poter più rimanere nei portafogli dei grandi investitori internazionali.

Ossia che un paese che non cresce da oltre 15 anni, che non si riesce a dare alcuna politica industriale ed energetica, che non sa varare incisive riforme in ambiti quali l’amministrazione dello stato, il mercato del lavoro, la corretta definizione e gestione dei servizi di pubblica utilità, la liberalizzazione dei mercati e delle professioni, che non riesce a sovvenzionare neppure in linea con quanto in media fanno i suoi concorrenti diretti l’innovazione e lo sviluppo, che non ha i mezzi per sostenere un welfare come quello tedesco, che ha un debito pubblico pregresso che viaggia tra il 132% e il 135% del proprio Pil (debito che cresce in media del 4% l'anno mentre il Pil da anni quano non decresce non va oltre i 2 punti di crescita nominale), non ha quasi speranze di evitare, prima o poi, un “haircut”, un default “pilotato”, un “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato” di parte del proprio debito pubblico. Che resta per ora un'ipotesi, non una certezza nè tanto meno un destino ineludibile, ma che tende ogni giorno ad avvicinarsi un poco di più mentre sarebbe il caso che diventasse sempre meno probabile.

Ci salva per ora da questo scenario da incubo solo la salda mano di Mario Draghi che tiene costantemente sulla corda i mercati lasciando ogni volta intravedere (ma senza poi concretamente annunciare) la possibilità che sia la Bce la “compratrice di ultima istanza” in grado di assorbire quei titoli di stato che finora sono stati in pancia alle banche italiane e che da qualche tempo con grande discrezione le banche stesse, attraverso i fondi comuni e le gestioni patrimoniali da esse stesse gestite, stanno iniziando a vendere non rinnovando integralmente lo stock di titoli in portafoglio, asta dopo asta. Chi compra in simili frangenti? La domanda si affaccia sempre più spesso nelle chiacchiere tra operatori e la risposta è: trader, investitori professionali abituati a operare a breve termine, fondi hedge che provano a sfruttare fino in fondo quel calo degli spread e dei rendimenti che la tattica di Draghi ha consentito di registrare nonostante i fondamentali economici italiani non stessero registrando alcun miglioramento e il processo di riforma procedesse in modo parziale e a rilento.

Prima o poi realtà e “speculazione” devono trovare un punto d’incontro: o sarà la realtà ad adattarsi alla visione degli “speculatori”, con una graduale ripresa della crescita economica italiana da un lato e un progressivo affermarsi del processo riformista anche in ambito giudiziario, burocratico, concorrenziale ed esperienziale, o sarà la “speculazione” a cambiare idea, preparandosi al rimborso parziale dei titoli di stato italiani. Magari dopo qualche ultima manovra “d’emergenza” su depositi e conti correnti degli italiani (perché alzare ulteriormente le tasse a fronte di un reddito disponibile sempre più in calo, di un mercato immobiliare congelato e per il quale non v’è alcuna ripresa in vista a breve e di una propensione al consumo che tocca ogni giorno nuovi minimi con un risparmio che risponde non a logiche d’investimento ma a esigenze prudenziali a fronte di un futuro che resta più incerto di quanto si vorrebbe, è difficile se non impossibile salvo, appunto, che con prelievi forzosi “straordinari” sulle disponibilità più liquide esistenti).

Così un suggerimento è: nell’attesa che si compiano queste benedette e più volte invocate riforme, che riparta l’economia italiana, che il paese apra una nuova fase di “rinascimento” in grado di far recuperare credibilità e quote di mercato ai nostri prodotti e servizi in Italia come all’estero, evitata di accumulare troppi soldi su un solo conto. O solo in Italia. O su una sola tipologia d'investimento (asset). Meglio distribuire, se avete la possibilità, il capitale su più conti, i risparmi su istituti di più paesi (possibilmente anche extra euro, in forma regolare e trasparente ovviamente, perché ormai il “nero” non lo accetta più neppure la Svizzera), gli investimenti su più asset. Così da assorbire al meglio, eventualmente, ove mai accadesse (facendo ovviamente ogni scongiuro perché ciò non accada), gli eventuali contraccolpi legati ad una “cacciata dall’euro” dell’Italia. O a una sua permanenza solo in forma condizionata ovvero sotto “tutela” della troika (per quanto di fatto tale tutela già esista sia pure indirettamente e con tutti i dubbi del caso, come ripeto da tempo). O di un default “pilotato”, parziale, con “haircut” del debito in mano a bondholder non privilegiati.

Sarà un caso ma uno dei punti caldi su cui in seno alla Bce sembra tuttora non trovarsi un consenso, quando si parla di possibile lancio di un programma di acquisto di titoli di stato come i Btp italiani, sarebbe la clausola “pari passu”. Ossia la possibilità che la Bce ottenga uno status di creditore privilegiato che la esenterebbe dall’eventuale “haircut” che a quel punto colpirebbe solo gli incauti investitori (in buona misura italiani) che avessero ancora ingenti posizioni in titoli di stato tricolori. Anche perchè diversamente il costo legato al “rischio-contagio” sarebbe proibitivo, così come la perdita di credibilità della Bce stessa. Insomma: consiglio da segnare subito sul calendario 2015, diversificate i vostri investimenti. Anche perché con un decennale sotto il 2% annuo lordo (meno dell’1,5% netto) di rendimento, davvero non c’è quasi più trippa per gatti, pardon per investitori. E già che ci siete guardatevi intorno, cercate di trovare il modo di avviare nuove attività, stringete contatti con l'estero, non aspettate insomma che la soluzione a tutti i vostri (nostri) guai arrivi magicamente dall'alto. Perché un atteggiamento attendista in questi casi rischia di essere rischioso tanto come investitori quanto come imprenditori o lavoratori.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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