Sembra ogni giorno più difficile capire chi abbia ragione sulla realtà del lavoro. Da una parte i dati dell'Istat e quelli del ministero del lavoro dipingono un quadro preoccupante, con la disoccupazione al 12.7% e quella giovanile al 44%. Che non ferma, tuttavia, il governo dal parlare di grande successo della riforma del lavoro, basandosi sui dati dell'Inps. Secondo cui nel primo semestre del 2015 la variazione tra i nuovi rapporti di lavoro e quelli conclusi si calcola in 638.240 nuovi avviamenti (rispetto ai 393.658 dell'anno scorso).
Matteo Renzi ha chiuso la questione con un tweet: "Crescono i lavori stabili, più 36%. Come era quella del Jobs Act che aumenta i precari? #italiariparte tutto il resto è noia…”. Beppe Grillo, invece, accusa il governo di manipolare i dati. Ma sbruffonate e allarmi non ci aiutano a capire di più. Esiste una grande difficoltà a dare una lettura chiara della situazione, come ha fatto notare nei giorni scorsi lo stesso presidente dell'Istat Giorgio Alleva.
C'è un dato, però, che nell'ultimo rapporto sui precari Inps su cui sarebbe il caso di soffermarsi. Si tratta della crescita esponenziale del lavoro a voucher. Dal rapporto: "Nel primo semestre del 2015 risultano venduti 49.896.489 voucher destinati al pagamento delle prestazioni di lavoro accessorio, del valore nominale di 10 euro, con un incremento, rispetto al corrispondente periodo del 2014, pari al 74.7%, con punte del 95,2% e dell’85,3% rispettivamente nelle regioni insulari e in quelle meridionali del Paese".
I voucher sono quasi radoppiati rispetto al 2014. Lavoro accessorio, buoni di lavoro, voucher: sono diversi modi per riferirsi a questa forma di lavoro. “Ma originariamente si chiamava lavoro-nonlavoro”, spiega Idilio Galeotti, sindacalista Cgil che per tanti anni si è occupato di precari come segretario Nidil di Ravenna. "Il voucher nasce nel settore agricolo per permettere ai contadini di far lavorare i propri parenti nei campi". Una forma precaria di lavoro nata da una deroga che permetteva ai contadini di poter impiegare senza ricorrere al nero.
Come funziona? Il voucher è un buono, proprio come un buono pasto, del valore di 10 euro lordi che si traduce in 7.50 euro netti. Ha un valore standard, a prescindere dal lavoro e dal settore. E proprio qui sta il problema: "È l'unica forma di lavoro che rimane slegata dai contratti nazionali firmati dai sindacati", spiega Galeotti. Non importa cosa sta scritto sul contratto nazionale dei metalmeccanici, del commercio, dei giornalisti. Se lavori con voucher non rientri nelle condizioni di lavoro di alcun settore, perché il voucher rimane fuori dai contratti nazionali. E la cifra è sempre quella: 10 euro lordi, 7.50 netti.
Il problema, chiaramente, non si è posto fintanto che il voucher è rimasto confinato all'agricoltura. Ma successivamente il voucher è stato esteso, e sempre più datori di lavoro hanno iniziato ad usarlo. Per il lavoro stagionale, per lavori occasionali, per lavoretti precari. E se una parte te la pago col voucher, il resto magari te lo dò in nero: "È la forma per pagare un lavoratore più precaria che esiste", continua Galeotti, "Anche il contratto a progetto rientra nei contratti nazionali, anche il contratto a chiamata deve rispettare dei limiti", conclude il sindacalista.
Il governo Renzi, col decreto lavoro del 15 maggio 2014, ha liberalizzato l'utilizzo del voucher estendo il suo utilizzo a più settori. E nei successivi decreti attuativi del Jobs Act del 2015, la sua applicazione è stata estesa ulteriormente, assieme al tetto di retribuzione massimo: da 5.000 euro netti l'anno a 7.000 euro netti, cioè circa 10.000 lordi (con il limite di 2.000 euro netti per le prestazioni rese nei confronti del singolo committente).
Non basta. Secondo quanto riporta l’Inps per questa forma di lavoro non c'è il nuovo obbligo di comunicazione. Significa che un datore di lavoro che vuole impiegare una persona a voucher non è neanche tenuto, per legge, a comunicare dati anagrafici e codice fiscale del lavoratore, né luogo e durata dell'impiego che tale persona andrà a fare. E meno sono i vincoli, meno sono le tutele per chi lavora.
Ora l’Inps rileva che il lavoro a voucher è aumentato del 75% nel corso di un anno. E sono due le tipologie di persone coinvolte: giovani precari e over 50 disoccupati e cassintegrati (che hanno finito gli ammortizzatori). Così, da una parte abbiamo giovani – stagionali, nella ristorazione, negli uffici – che vengono sfruttati, in barba ad ogni contratto nazionale, e a cui va peggio che col contratto a progetto (che il governo Renzi ha cancellato per diminuire la precarietà) o a chiamata.
Dall’altro lato assistiamo a una proliferazione del voucher negli enti locali, comuni e regioni. Basta effettuare una rapida ricerca su Google per rendersene conto: a Benevento in Campania il comune ha appena pubblicato i bandi, mentre a Santa Maria del Monte, vicino Pisa, si tratta di lavori di giardinaggio. In Lombardia il comune di Legnano lancia i voucher per aiutare le famiglie in difficoltà, mentre in Toscana il voucher è per giovani e imprese (e come facciano le imprese a lavorare a voucher non si sa). E così via, in un elenco infinito.
Insomma, giovani sfruttati o disoccupati over 50, la crescita dei voucher è un dato che parla di una crescita dei lavoratori poveri, siano giovani precari o disoccupati over 50. Perché è una vergogna che un ente locale impieghi persone con due spiccioli e senza tutele, anche quando lo fa per aiutare chi si trova in difficoltà. Perché è una vergogna che un datore di lavoro impieghi un giovane a voucher, con tutti gli sgravi che oggi le aziende hanno sui contratti indeterminati e a tempo.
Ma il problema è a monte, perché fatta la legge si trova l’inganno. Mentre si cancellavano i contratti a progetto, liberalizzare questa forma di lavoro, nata come una deroga per i lavori stagionali nei campi, significava aprire le porte di uno sfruttamento a mezzo buono pasto. Su cui enti locali e datori di lavoro si sono buttati a pesce, con quasi 50 milioni di voucher venduti, e una crescita del 75% in un anno. Dando vita a una nuova stagione dei braccianti che, anche se non lavora più nei campi, oggi conosce lo stesso sfruttamento.