Tutto da rifare, signora mia. Il premier giapponese Shinzo Abe rompe gli indugi e annuncia che rassegnerà il 21 novembre prossimo le dimissioni, provocando lo scioglimento del Parlamento e la chiamata a nuove elezioni anticipate (tra la metà di dicembre e l’inizio del 2015). Abe, la cui “Abenomics”, un mix di stimoli economici e riforme strutturali che avrebbe dovuto rilanciare la crescita di quella che un tempo era la seconda economia mondiale ma che da quasi due decenni non riesce più a ripartire, non sembra in grado di mantenere le promesse fatte (il Giappone è anzi in recessione tecnica dopo aver chiuso il terzo trimestre con un Pil in calo dello 0,4% rispetto ai tre mesi precedenti, ovvero dell’1,6% su base annualizzata) complice l’innalzamento dell’Iva, lo scorso aprile, dal 5% all’8%, ha anche deciso di rinviare l’ulteriore innalzamento dell’Iva (dall’8% al 10%) e promette ora una legge per cercare di rivitalizzare le economie regionali. I margini di manovra di Abe appaiono comunque limitati: il budget supplementare dovrebbe oscillare tra i 3.000 e i 4.500 miliardi di yen (dai 20 ai 30 miliardi di euro di ulteriore spesa pubblica), la Bank of Japan ha già varato ulteriori misure a sostegno della crescita a fine ottobre e difficilmente potrà dare un’ulteriore mano, mentre le promesse riforme strutturali restano al palo e il debito pubblico ha ormai superato il 200% del Pil.
Tokyo come Roma, dunque o forse peggio, visto che l’Italia ha smesso di crescere “solo” da un quindicennio e ha un debito pubblico pari a “poco più” del 130% rispetto al Pil (che si contrae sì, ma “appena” dello 0,4% su base annua). Visto tuttavia che l’ex “bel paese” appare avviato sulla stessa strada del Giappone non c’è di che stare allegri anche se ieri Mario Draghi, presidente della Bce, ha provato a iniettare l’ennesima dose di morfina o “fiducia” che dir si voglia ai mercati, promettendo che se anche gli acquisti di covered bond e Abs non si dovessero dimostrare sufficienti, la Banca centrale europea è pronta (o quanto meno la maggioranza dei suoi componenti, visto che l’ostilità tedesca non pare superata) a lanciare un vero e proprio “quantitative easing”, ossia un programma di acquisto di titoli di stato che verrebbero ceduti, verosimilmente, dalle banche dei paesi più a rischio come Spagna e Italia (o anche Francia, il cui Pil pare essere cresciuto ancora nel terzo trimestre solo grazie a un incremento delle scorte di magazzino, non della domanda finale).
Come nel caso di Abe, anche nel caso italiano, con o senza l’ulteriore aiuto da parte della Bce, il problema irrisolto resta sempre lo stesso: un debito (pubblico o privato che sia) appare sostenibile solo se rappresenta una quota modesta (non superiore al 60% secondo studi accademici ed evidenza aneddotica) della ricchezza del debitore, ovvero se l’incremento del debito è in linea o inferiore all’incremento della ricchezza del debitore. Quel che rende l’Italia un caso ancor più problematico del Giappone è che il costo medio del debito pubblico italiano, superiore al 4% secondo le stesse previsioni del governo riportate nel Documento economico finanziario (Def), ossia ad un’ottantina di miliardi l’anno di interessi da corrispondere ai detentori di titoli di stato (per il 70% risparmiatori italiani, in gran parte attraverso la propria banca o i propri fondi comuni d’investimento), è undici volte il costo medio sul debito pubblico giapponese (che oscilla attorno allo 0,4%). Sicché con un’inflazione largamente inferiore al 2% annuo (anzi tuttora prossima a zero) l’Italia deve sperare di crescere in termini nominali di almeno 2-3 punti percentuali l’anno solo per mantenere in equilibrio il tutto, mentre al Giappone, dove l’inflazione a fine settembre era pari al 3,28%, basta non decrescere in termini nominali per vedere gradualmente calare il peso “reale” del debito sulla propria economia.
Una situazione questa che ha consentito ad Abe di galleggiare nonostante i ritardi accumulati sul fronte delle riforme (la “terza freccia” di cui ha più volte parlato il premier giapponese) ed in particolare del riordino della fiscalità, con la riduzione graduale dal 35% attuale al 30% della tassazione sul reddito d’impresa così da riallinearsi sulla media Ocse (29%), mentre le tasse sui consumi (l’Iva in particolare) dovrebbero crescere. Ancora da attuare sono poi la riforma sulla governance societaria, per aumentarne la trasparenza e la tutela per gli azionisti di minoranza, e la riforma del lavoro, per aumentare la partecipazione femminile e dei lavoratori stranieri. Suggerimento per il premier italiano Matteo Renzi e i suoi ministri: visto che forse la Bce ci darà ancora un poco di ossigeno, sempre che la Germania non si mette di traverso (ma visto che sta rallentando anche l’economia di Berlino la manovra potrebbe effettivamente essere lasciata passare, magari in forma meno “pesante” delle cifre finora circolate), anziché mettersi a pontificare con la Ue sulla veridicità dei numeri della Legge di Stabilità, provi il governo italiano a varare riforme analoghe a quelle promesse dal Giappone.
Riducendo e non aumentando le imposte, già più elevate che in Giappone sia per quanto riguarda le società sia i consumi e che invece rischiano di crescere ancora il prossimo anno sul risparmio e nei prossimi due anni sui consumi se i “numeri” di finanza pubblica non torneranno. Riducendo la burocrazia che realmente rallenta il paese. Rendendo il mercato del lavoro più competitivo, ma anche necessariamente riducendo il cuneo fiscale che grava sul costo del lavoro e fa in modo che pur costando (in termini di salari netti) meno dei lavoratori europei, i lavoratori italiani costano alle imprese di più. Tutelando il territorio e aprendo i mercati, a partire da quello televisivo e da internet, alla concorrenza. Solo così potrà dare una parvenza di opportunità di crescita al paese. Che poi la crescita si materializzi o meno è ancora tutto da vedere, ma se non ci si prova neppure a varare le premesse, sarà difficile che l’economia riparta solo perché si è votato un presidente “neutrale” rispetto agli interessi di bottega dei principali schieramenti politici italiani o perché si è votata una “importantissima” ma totalmente ininfluente sotto il profilo economico riforma del Senato. E ribadendo una volta per tutte anche in Europa che l’Italia può tornare ad essere un partner affidabile e a cui concedere credito, perché tale credito sarà utilizzato per fare le riforme, non per fare campagna elettorale.