Genova 2001, quindici anni dopo la tortura di Stato in Italia non è ancora reato
Due giorni fa il Senato ha sospeso e rinviato a data da destinarsi l'esame del disegno di legge sul reato di tortura. Pur avendo ratificato la Convenzione di New York del 1984, nel nostro paese da circa trent'anni persiste questo vuoto, che ha lasciato dietro di sé una lunga scia d'impunità. "Come prevedibile, un Senato inqualificabile e infingardo ha preso una decisione inqualificabile e infingarda: ha stabilito che fosse troppo presto approvare un provvedimento che attende di essere accolto nel nostro ordinamento dal 1988. Eh già, troppo presto", ha scritto su Facebook il senatore del Pd Luigi Manconi, tra i proponenti del disegno di legge che era in esame in Parlamento. Il testo era stato approvato dalla Camera in tutta fretta il 9 aprile 2015, due giorni dopo che la Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato l'Italia per il massacro della scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001. Dopo quella sentenza, il presidente del Consiglio Matteo Renzi aveva commentato scrivendo su Twitter che "quello che dobbiamo dire lo dobbiamo dire in parlamento con il reato di tortura. Questa è la risposta di chi rappresenta un Paese". A distanza di oltre dodici mesi, però, il disegno di legge è nuovamente al palo.
L'ennesimo rinvio è arrivato, curiosamente, mentre ricorrono i quindici anni dal G8 di Genova del 2001. È stato dopo quelle giornate – e per la verità con ritardo – che l'Italia si è accorta che la tortura era un problema che riguardava anche il nostro paese. Nella sentenza d'appello per le violenze messe in atto nella caserma di Bolzaneto si legge che i manifestanti che vennero portati lì furono picchiati, umiliati e sottoposti a "trattamenti inumani e degradanti". Ciononostante, il processo ai 44 imputati si chiuse in Cassazione con sette condanne e trentasette prescrizioni. Come ha denunciato al tempo Amnesty International, è stata "la mancanza del reato di tortura nel codice penale italiano" a impedire "ai giudici di punire i responsabili in modo proporzionato alla gravità della condotta loro attribuita". Tra coloro che si sono occupati di quel processo c'era anche Roberto Settembre, ex magistrato ed estensore della sentenza di appello dei fatti di Bolzaneto. Da quell'esperienza è venuto fuori un libro uscito nel 2014, "Gridavano e piangevano. La tortura in Italia: ciò che ci insegna Bolzaneto", che ripercorre violenze, maltrattamenti e umiliazioni inflitte cui sono stati sottoposti coloro che sono stati portati lì durante le giornate di Genova. C'è, ad esempio, la testimonianza di Melody T., giornalista francese finita nella caserma di Bolzaneto il pomeriggio del 20 luglio 2001:
"Ho sentito persone chiamare padre e madre e supplicare di smettere di picchiare. All'interno delle celle c'erano delle materie viscose, delle materie un po' liquide, anche un po' spesse, una mischia di vomito,sangue e urina. Mi ricordo queste materie liquide anche nel corridoio perché tantissimi giovani presenti a Bolzaneto erano coperti di sangue, sopratutto il viso ancora gocciolante, il sangue continuava a scorrere e tante persone vomitavano a causa dei gas utilizzati. Mi ricordo di una persona sdraiata per terra nel corridoio davanti alla stanza chiamata Digos immersa nel suo vomito fino al collo e non si poteva riconoscere, era piena di piaghe, ferite alla testa e sembrava aver perso conoscenza".
Abbiamo intervistato Settembre per capire se qualcosa è cambiato a quindici anni di distanza da Genova e perché l'Italia persevera nel non volersi dotare di una legge che introduca il reato di tortura.
Quello che è successo durante il G8 del 2001 ha reso evidente a tutti che in Italia la tortura esiste. Prendendo le mosse dal sottotitolo del suo libro, a quindici anni di distanza cos'è che ci ha "insegnato" Bolzaneto?
In ogni Stato c'è una parte che ha il monopolio dell'esercizio della violenza e della forza. E sono le forze dell'ordine. Il problema è che ogni volta che c'è un potere, il potere se non ha dei bilanciamenti o dei limiti o delle norme che lo controllino, tende a strabordare. Questo è un concetto generale della democrazia, che si costruisce poi attraverso il bilanciamento dei poteri. La tortura è una delle manifestazioni, la più orrenda in tempo di pace, con cui il potere oltrepassa i propri limiti sugli inermi. I fatti di Genova del 2001 sono spaventosi, è stata la peggior manifestazione di forza bruta su persone indifese dopo la fine della seconda guerra mondiale in Italia. Ecco, la lezione è questa. Il punto è che non è stato fatto praticamente nulla di concreto per porre dei limiti all'esercizio del monopolio della forza da parte dello Stato per evitare che potesse ripetersi. E infatti, in piccolo – per così dire, ovviamente, perché parliamo di singole vittime piuttosto che di dimensioni collettive come è successo Genova – queste cose sono accadute ancora nelle caserme, nelle celle delle carceri e in altri luoghi.
E in questa inerzia dello Stato, quindi, si sono ripetuti meccanismi simili nei casi Aldrovandi, Cucchi, Uva?
Sì è così. Ecco, qui poi ci sono due aspetti. Il primo è il fatto che queste cose possano verificarsi, come si sono effettivamente verificate negli ultimi quindici anni; l'altro è che devono essere chiamate con il loro nome. Ma per essere chiamate con il loro nome è indispensabile che ci sia una norma che lo preveda.
Nel libro, parlando di quello che era successo a Bolzaneto e di tortura, si sottolinea la "fiera opposizione alla sola idea di usare questo nome". Oggi, a quindici anni di distanza, in Italia la tortura è ancora un tabù?
Certamente. Non per niente la legge sulla tortura è stata addirittura congelata. Il nostro paese ha ratificato la Convenzione di New York del 1984 che definisce e chiarisce molto bene il concetto e in cosa consiste la tortura. Il problema è che da allora l'Italia – nonostante sia stata richiamata anche dall'Europa diverse volte – si è sempre rifiutata di approvare questo tipo di legge. E i disegni sulla tortura che qualche anno fa sono entrati al nostro Parlamento – l'ultimo è del senatore Luigi Manconi – hanno subito ulteriori modifiche in senso peggiorativo. E questa non è una cosa di poco conto. Il concetto di tortura di per sé serve a definire determinate condotte – e tra l'altro il nostro paese sembra palesemente non volerlo proprio accogliere -, ma poi progetto di legge che prevede la sanzione di questo tipo di condotte deve essere valutato in concreto. Sostanzialmente va fatta una riflessione sugli effetti, perché quando questo tipo di norma non è efficace perde completamente la sua valenza deterrente.
Cioè non basta avere "una" legge sulla tortura.
Il punto è che la legge serve per arrivare ad avere la certezza di quanto accade. Mentre da un lato ci sono determinate condotte – come possono essere, ad esempio, quelle dei manifestanti – che sono molto chiare, definite da sentenze che restituiscono l'idea di cosa è accaduto in determinate situazioni; dall'altro lato abbiamo una miriade di condotte sanzionate da reati di lieve entità, prescrivibili tutti in poco tempo, che non consentono di identificare questa realtà brutale, questo uso della forza da parte dello stato. Per cui è necessario che ci sia una norma che chiami queste condotte con il loro nome, che ci sia una sentenza passata in giudicato perché la gente possa avere chiaro che cosa è accaduto in quei casi. Ma per avere una sentenza che passi in giudicato che individui quello che è successo deve esserci anche una norma che non solo chiami queste condotte con il loro nome, ma anche le individui, le esemplifichi e le renda perseguibili.
Quindi cosa pensa del disegno di legge che due giorni fa il Senato ha rinviato a data da destinarsi?
Ecco, il progetto di legge che giace adesso in parlamento per me è insufficiente e ha dei limiti giganteschi che non sono privi di conseguenze. Quello più evidente è che è la tortura viene identificata come un reato comune, cioè viene esteso il concetto ad azioni che possono essere commesse da chiunque – come il furto, per intenderci. Ma nelle convenzioni internazionali il concetto di tortura è proprio introiettato come delitto dello stato, commesso dallo stato. Qualificarla come reato comune è come dire che la bigamia è un reato che possono commettere anche gli scapoli. E invece no, possono farlo solo le persone sposate. La tortura è un reato che può essere commesso soltanto dallo stato. Ed è molto importante questo, deve essere un reato imprescrittibile perché è talmente orrendo come delitto che non deve essere possibile che il passaggio del tempo – talvolta colposo, talvolta anche doloso a causa di certe forze omertose – ne impedisca l'accertamento definitivo. Il secondo punto è il tipo di condotta. La convenzione di New York la specifica molto bene. E invece il tipo di delitto previsto dalla legge che c'è in Parlamento prevede più violenze – per cui spegnere una sigaretta in un occhio a una persona posta nelle mani del potere non sarebbe tortura; e devono essere provati i danni psicologici – quindi se viene fatta la roulette russa e non si prova il danno psicologico non sarebbe tortura. Sono conseguenze importanti, e bisognerebbe chiarire fino in fondo qual è il significato di proporre una legge di questo tipo – tra l'altro al momento addirittura congelata dal Parlamento. E mi chiedo perché non si possa fare come in Francia dove è stata presa direttamente la definizione della Convenzione di New York per capire cos'è la tortura.
L'Italia ha ratificato la Convenzione, ha vissuto e "scoperto" ciò che è successo al G8 di Genova, è stata condannata in sede europea. Per quale motivo persevera nel non approvare una legge sulla tortura – o si impegna a svuotare quelle che giacciono in parlamento?
C'è sicuramente un'opposizione – a mio avviso infondata – da parte della polizia e anche parecchia strumentalizzazione politica. Si potrebbe parlare di una sorta di sfiducia da parte delle forze dell'ordine nei confronti dell'autorità giudiziaria; oppure della paura – anche questa priva di fondamento – che alcune forze inquirenti possano strumentalmente agire contro le istituzioni. Ecco, mi pare che questo non abbia senso.
Le obiezioni si basano soprattutto sul fatto che l'introduzione di un reato del genere potrebbe essere "rischioso" e "limitante" per le forze dell'ordine.
Per me è del tutto abnorme. Oggi si dice che con quanto sta accadendo nel mondo, con la minaccia terroristica e via dicendo, introdurre il reato di tortura sarebbe pericoloso. In questo modo si richiamano implicitamente i concetti di un noto giurista americano, Alan Dershowitz, che ha teorizzato che a fronte di un continuo esercizio della tortura quale orrendo delitto in modo incontrollato ma comunque strumentale alle necessità delle indagini in momenti di grande crisi, si potrebbe legalizzarla ipotizzando delle forme legali – come utilizzare aghi sterilizzati da ficcare sotto le unghie dei torturati – con eventualmente un "mandato di tortura" da parte del giudice. A mio giudizio tutto questo significa codificare la barbarie, è un concetto che va respinto radicalmente.
Alla luce degli episodi successi negli anni, della difficoltà di accertarli e della ferma opposizione all'introduzione del reato di tortura, esiste un problema nelle forze di polizia italiane?
C'è un problema sicuramente di formazione, manca un'introiezione profonda dei principi costituzionali di questo tipo. Probabilmente è questo che è assente. Ci sono persone rispettabilissime, consapevoli del proprio ruolo e della propria funzione; ci sono stati e ci saranno dei veri eroi nelle forze dell'ordine, figuriamoci. Ma questo è un altro discorso. Il problema è generale ed è quello della formazione specifica proprio in vista di questo tipo di funzione. Non si può lasciare all'iniziativa personale o alla coscienza di qualcuno il rispetto delle regole. È una delle cose che si dovrebbero fare a monte. Ma anche su questo da Genova in poi non è stato fatto praticamente nulla.