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Opinioni

Flessibilita’ sul lavoro? In Italia non paga secondo la Sda Bocconi

La flessibilità? All’estero paga, in Italia fa male ai lavoratori che la praticano. Lo sostiene un’analisi della Sda Bocconi che conferma come il problema da noi non sia il costo del lavoro ma il modello culturale di riferimento.
A cura di Luca Spoldi
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Bocconi

Costo del lavoro, flessibilità, produttività: assieme a spread e riforma delle pensioni sono temi ormai tristemente famigliari a milioni di italiani, complice una crisi (un tema, questo, che continua invece a non appassionare il Parlamento) che stenta a passare tanto che ieri il Governo ha ufficialmente peggiorato le previsioni macroeconomiche per il periodo 2012-2015, annunciando che per quest’anno va messa in conto una recessione che riduca il Pil del 2,4% e per il 2013 un ulteriore lieve calo dello 0,2% (mentre nel 2014-2015 si spera di registrare una crescita rispettivamente dell’1,1% e dell’1,3% “grazie all’aumento della domanda interna ed esterna in virtù degli effetti positivi delle riforme strutturali per rilanciare l’economia”).

Che un problema di costo del lavoro esistesse è indubbio a osservare la differente dinamica di questa voce nell’ultimo decennio (ma la colpa più che dei lavoratori è del fisco italiano, che ha aumentato continuamente il “cuneo” tra le retribuzioni lorde e nette), che il costo del lavoro (il cui peso oscilla tra il 5% e il 10% in rapporto agli utili per le maggiori imprese italiane quotate) sia il primo e più importante scoglio da affrontare in tema di riforma solo un bambino poco informato può crederlo, visto che secondo Istat è semmai la produttività italiana a non essere cresciuta al contrario di quella di tutti gli altri principali paesi europei e non. Ma la produttività, dovrebbe essere chiaro, si migliora investendo o in formazione o in innovazione o in entrambe, non tagliando il costo del lavoro o adottando forme di flessibilità che secondo una ricerca della Sda Bocconi (non della Cgil o di qualche economista “comunista”) “all’estero paga, da noi si paga”.

Una ricerca presentata in questi giorni dall’Osservatorio Diversity Management della Sda Bocconi ha evidenziato come in Italia i lavoratori part-time (ma vi assicuro lo stesso vale per i fornitori di servizi in outsourcing, che costituiscono parte dell’esercito di partite Iva presente in Italia) siano penalizzati “in termini di valutazione annuale, sviluppo di carriera e retribuzione”. Insomma: “in Italia la flessibilità fa male a chi la usa” perché “nelle imprese italiane la flessibilità non è solo utilizzata in modo rudimentale (ce n’è meno che nel resto d’Europa ed è sostanzialmente limitata alle forme del part-time e del telelavoro), ma finisce per penalizzare – in termini di valutazione della performance, sviluppo di carriera e retribuzione – i lavoratori che ne fanno uso”.

Scegliere il part-time qui da noisignifica dimezzare la possibilità di ricevere, a fine anno, le più alte valutazioni (4 e 5 in una scala da 1 a 5), ridurre di sette volte la possibilità di fare una carriera davvero brillante (con due o più passaggi di livello in quattro anni) e guadagnare meno denaro con gli incentivi economici e i bonus non automatici”. Penalizzati nelle valutazione di fine anno, i lavoratori part-time lo sono ancor di più nei passaggi di livello contrattuale (l’88,3% dei lavoratori part-time non ne ha registrato nessuno nei quattro anni considerati dalla ricerca, contro il 72,7% dei full-time), inoltre dalla ricerca emerge anche che nel “Belpaese” gli incrementi salariali non legati ai passaggi di livello (ossia gli incentivi economici e i bonus non automatici) sono attribuiti di preferenza ai lavoratori full-time.

Le tensioni tra lavoratori e impresa che si registrano, in Italia, in tema di flessibilità sono paradossali, perché il confronto internazionale indica che le aziende che incoraggiano un ruolo di maggiore responsabilità del dipendente anche nella gestione del proprio tempo riescono a creare condizioni favorevoli a un maggiore coinvolgimento delle persone”. In Italia, secondo Simona Cuomo, una delle due coordinatrici dell’Osservatorio Diversity Management, “parlare di flessibilità oggi significa essenzialmente sconfinare nel tema della precarietà e nella conseguente insicurezza generata nel lavoratore. La nostra ricerca dimostra che la flessibilità può essere un traino in grado di generare valore per l’individuo e per l’impresa, a patto che vengano superate alcune idee radicate e poco flessibili che relegano lo stesso concetto ad uno strumento di taglio dei costi”.

Se Roma fosse più similea Berlinoa Parigi o a Londra, insomma, utilizzare la flessibilità per migliorare le performaces economiche e a livello sociale per incidere positivamente sulla qualità della vita, sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori e dei cittadini sarebbe possibile. Non solo: “Le cause del cattivo uso della flessibilità in Italia non possono essere fatte risalire né alla produttività, né ai costi organizzativi”, sostiene Adele Mapelli, l’altra coordinatrice dell’Osservatorio, che poi aggiunge: “Restano invece i costi indiretti, non monetari, riassumibili nel maggior affaticamento che l’organizzazione deve subire ma che possono sicuramente essere assorbiti soprattutto se rapportati ai possibili benefici derivanti dalla job satisfaction dei lavoratori che usufruiscono di queste forme contrattuali”.

Indovinate un po’? La colpa è dell’arretratezza culturale italiana, dato che “l’implementazione delle politiche di flessibilità spazio temporale”, concludono le ricercatrici, si scontrerebbe “con una cultura organizzativa e sociale che premia più il presenzialismo del raggiungimento effettivo dei risultati lavorativi”. Le imprese italiane premiano “l’overtime, come simbolo di fedeltà all’organizzazione indipendentemente dalle performances. Di conseguenza, le tipologie di flessibilità adottate dall’impresa tendono ad essere svalutate culturalmente, o vengono proposte a cittadini organizzativi ritenuti poco performanti”. Chi decide di adottarle per motivi legati alla conciliazione di aspetti della propria identità “viene stigmatizzato come poco produttivo e quindi immediatamente escluso dai percorsi di sviluppo dell’impresa”. Decisamente non è il costo del lavoro il primo problema di questo sventurato paese.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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