E’ tutta una questione di numeri, coi mercati. Così anche oggi sono sotto i riflettori le banche e i titoli ciclici europei ed in particolare gli istituti di credito spagnoli, mentre si attende di sapere che si diranno i ministri delle Finanze e i banchieri centrali del G7 attesi ad una conference call telefonica per fare il punto sulla crisi creditizia ed economica che ormai dall’aprile del 2010 attanaglia l’Europa. Stamattina, infatti, sono arrivati alcuni annunci interessanti, di quelli che solitamente fanno bene ai mercati, ma operatori e analisti continuano a scuotere la testa.
In Spagna il ministro del Bilancio, Cristobal Montoro, ha spiegato in un’intervista che le “istituzioni europee” dovrebbero aiutare Madrid nel piano di ristrutturazione delle principali banche iberiche, aggiungendo che senza aiuti europei salvare la Spagna è “tecnicamente impossibile”. Certo, Montoro ha subito precisato: “la Spagna non può essere salvate nel senso tecnico del termine” perché “non ne ha bisogno, ha bisogno di più Europa, di più meccanismi per l’integrazione dell’Europa”, ossia avrebbe bisogno di quell’unione fiscale, dunque politica, che anche secondo la Bce è urgente affianchi l’unione monetaria che da sola ha dimostrato di essere monca e non saper fare uscire il vecchio continente da una crisi causata da squilibri tra Nord e Sud Europa che l’euro ha finito con l’accentuare, non essendoci mai stata una comune politica tesa a sanarli.
Montero ha anche aggiunto, per rassicurare ulteriormente gli animi, che “non serve una grande somma” per ricapitalizzare le maggiori banche spagnole, spalleggiato in questo dalle dichiarazioni che sempre oggi sono arrivate da Emilio Botin, azionista di riferimento e presidente del Banco di Santander (il maggior istituto di credito spagnolo), secondo cui basterebbero una cinquantina di miliardi di euro di fondi Ue per chiudere la faccenda. Peccato che gli analisti valutino l’esposizione delle banche spagnole al moribondo mercato immobiliare attorno ai 320 miliardi di euro (di cui 38 solo da parte di Bankia che ha già dovuto chiedere aiuti di stato per 19 miliardi, mentre un’altra trentina sono andati ad altre tre ex casse di risparmio altrettanto in difficoltà).
Siccome poi l’unione fiscale (e dunque politica) europea richiederà tempi medio-lunghi per vedere la nascita e ancor più per produrre qualche effetto concreto, per il momento si pensa a una “soluzione ponte”, o una “bad bank” che rilevi gli asset tossici degli istituti (ma non si sa bene come valorizzarli) o ad aiuti erogati dal fondo interbancario spagnolo (che però ha in cassa non più di una ventina di miliardi e per il resto dovrebbe ricorrere al mercato sfruttando la “garanzia” dello stato, cosa che al momento non è comunque possibile con uno spread contro Bund che si mantiene per il settimo giorno sopra la soglia del 5%) o ancora tramite aiuti erogati dai fondi europei Efsf o Esm al fondo spagnolo e da questi alle banche (cosa che eviterebbe una formale richiesta i “bailout” come quelle avanzate da Irlanda, Grecia e Portogallo, posto però che gli attuali regolamenti non sembrano contemplare questa ipotesi ed è dunque necessario un preventivo compromesso a livello comunitario).
A "rallegrare" la giornata per chi si fosse distratto il fondo hedge statunitense Bridgewater ha ricordato a tutti che comunque la si metta i fondi europei non hanno fondi neppure per garantire la metà del funding necessario alle banche spagnole e italiane nel loro complesso per operare regolarmente e che da inizio crisi ad oggi tra salvataggi, Ltro, tagli dei tassi e quant’altro l’Eurozona ha già pompato oltre 2 mila miliardi di euro senza ottenere particolari risultati (come accusano i più critici come i trader di Zerohedge, anche se personalmente dissento). E dunque che i conti, ad oggi, ancora non tornano e il rischio che la crisi sfugga definitivamente di mano resta alto.
Molto più modesta l’altra “incongruenza”, tutta italiana e relativa al gruppo Fiat. Un tempo “barometro” dello stato di salute dell’economia tricolore, da tempo la multinazionale del Lingotto sta cambiando pelle e per molti si prepara a salutare definitivamente l’Italia dopo aver già chiuso gli impianti di Termini Imerese (per i quali non vi sono ancora concrete alternative di rilancio, apparendo sempre più improbabile la “soluzione” proposta dall’imprenditore Massimo Di Risio, dopo che il ministero delle Attività produttive ha ammesso che la sua Dr Motors “non è nelle condizioni di rispettare la scadenza richiesta dal ministero per risolvere i propri problemi finanziari”).
Secondo una nota del gruppo, infatti, a maggio, per il secondo mese consecutivo, il modello Giulietta (marchio Alfa Romeo) “si è confermata la berlina compatta preferita dagli italiani” e nonostante un mercato “in sensibile calo rispetto allo stesso mese dello scorso anno, Giulietta va in controtendenza incrementando i propri volumi del 3% ed attestandosi ad un totale di 3.472 immatricolazioni, con una quota oltre il 20% nel segmento di riferimento”. Una buona notizia, ma anche in questo caso analisti e investitori sono perplessi e il titolo perde quota in borsa a Milano.
Soliti speculatori, “vil razza dannata” che non sanno gioire se non per notizie di licenziamenti e commesse miliardarie? Non proprio: in questo caso pesa la perde conferma, giunta ieri sera per bocca dell’amministratore delegato del gruppo, Sergio Marchionne, ed oggi semisepolta in pochi trafiletti nelle pagine interne dei maggiori quotidiani italiani, del “rinvio di alcuni modelli” (pare trattarsi delle nuove Bravo e Grande Punto) il cui lancio era finora in calendario per il 2013 ma che rischierebbero di slittare almeno sino al 2014. Non proprio la notizia che ci si attendeva per smentire il progressivo disimpegno del gruppo dall’Italia e dal vecchio continente, dove del resto la crisi rischia di trascinarsi a lungo se il “growth compact” continuerà a restare una sigla vuota e il “fiscal compact” continuerà a strozzare le economie del Sud Europa anziché aiutarle ad onorare i propri debiti in modo sostenibile.