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Federico Aldrovandi, ucciso a 18 anni dalla polizia senza un perché

Il 25 settembre 2005 il diciottenne Federico Aldrovandi moriva pestato a sangue dalla polizia. Ci sono voluti tre anni di processo e la battaglia dei genitori perché la sua morte venisse riconosciuta come omicidio e i quattro agenti che lo massacrarono fossero condannati (a tre anni di carcere).
A cura di Angela Marino
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Ferrara. È un tranquillo venerdì sera di fine settembre. Un'auto con un gruppo di giovani si ferma in viale Ippolito, stradone residenziale della città estense. Nel silenzio delle prime ore del giorno uno sportello si apre e dall'auto viene fatto scendere un ragazzo dagli occhi scuri e i capelli corvini. Lo sportello sbatte e la comitiva se ne va. È buio, le tapparelle sono abbassate, le finestre chiuse, per strada non c'è un'anima, ma a vigilare sulla sicurezza notturna c'è una pattuglia della polizia.

L'omicidio

Federico, 18 anni, appena tornato da una serata al ‘Link' di Bologna, brillo ma non ubriaco, si imbatte nella volante "Alfa 3", con a bordo gli agenti Enzo Pontani e Luca Pollastri. Qualcosa nel suo comportamento attira l'attenzione dei poliziotti che lo fermano, comincia una colluttazione due contro uno. Poco dopo chiamano in soccorso la volante "Alfa 2", con a bordo Paolo Forlani e Monica Segatto, gli agenti diventano quattro, nelle loro mani armate di manganelli, hanno un ragazzo di 18 anni. Alle 6 e 20 sul posto arrivano un'ambulanza, i medici del 118 trovano un ragazzo riverso a terra, con le mani ammanettate, il corpo ricoperto di ecchimosi, il viso stravolto. Federico è morto.

Le indagini

Patrizia e Lino, i genitori, continuano a cercarlo disperatamente al cellulare. Al telefono, ormai in possesso della polizia, dopo svariati tentativi della madre, a un certo punto risponde un agente. Dopo decine di chiamate dal numero registrato con il nome ‘mamma', sul display appare il nome ‘Lino', gli agenti rispondono. È il papà di Federico al quale, benché suo figlio si trovi esanime a pochi passi da casa sua, vengono date informazioni vaghe e confuse, tanto da costringerlo a telefonare in Questura. Solo alle 11, cinque ore dopo l'arrivo dell'ambulanza in viale Ippolito, Lino e Patrizia vengono informati di quanto è successo. Si parla di ‘overdose', ma alla vista del corpo del loro ragazzo, gli Aldrovandi cominciano a temere che a uccidere il loro figlio non sia stata affatto la droga o un malore, ma un brutale, interminabile pestaggio. I segni raccontano di botte violentissime, tanto da spaccare i manganelli, lesioni che non si giustificano con le spiegazioni che medici e poliziotti danno loro. A confermare i sospetti dei familiari di Federico, arrivano poi le testimonianze degli amici che lo hanno accompagnato a pochi passi da casa, la sera del 25 settembre 2005. I ragazzi raccontano che Federico aveva bevuto (poco) e aveva preso qualcosa al ‘Link', ma era completamente lucido e padrone di sé quando lo hanno lasciato a pochi metri da casa.

Il blog

Le indagini, condotte dal pm Mariaemanuela Guerra, vanno avanti senza colpi di scena finché, nel 2006, un anno dopo dalla morte di Federico, mamma Patrizia mette online un blog in cui racconta la storia di suo figlio. A spingere Patrizia Moretti a ricorrere al megafono della rete è il silenzio calato sulla vicenda. Un silenzio che per la madre del ragazzo morto in viale Ippolito ha il sapore dell'insabbiamento. In pochi giorni diventa il più cliccato in Italia, accendendo i riflettori sulla vicenda. È nato il caso Aldrovandi.

A processo

Nel 2007 gli agenti che intervennero quella notte, vengono rinviati a giudizio per omicidio colposo. Secondo l'accusa i quattro poliziotti hanno picchiato selvaggiamente Federico quando il diciottenne era ormai inerme e impossibilitato a opporre resistenza. Il dibattimento va avanti a colpi di perizie. Secondo Giorgio Gualandri e Antonio Zanzi, consulenti della parte civile rappresentata dagli avvocati Fabio Anselmo e Riccardo Venturi, la quantità di stupefacenti e alcol assunta dal ragazzo non era in alcun modo sufficiente a provocare il decesso, anzi. Secondo i medici la morte sarebbe sopravvenuta per "asfissia da posizione" dovuta alla pressione delle ginocchia dei poliziotti sul torace. Niente overdose, dunque, nessun malore.

Il video

Un anno dopo l'inizio del processo spunta un video della Polizia scientifica in cui si sentono pronunciare dagli agenti frasi inquietanti. "Digli alla madre che questo sta male"dice un poliziotto quando Federico è già senza vita. "No… – si sente lamentarsi un agente – lo chiamano al cellulare. Si è ammazzato da solo, dovete dire che era qui da solo". "Oh, nessuno degli altri deve sapere di questa cosa".

Depistaggi

Contemporaneamente viene avviato un filone di indagine indipendente su presunti falsi, omissioni e depistaggi messi in atto dalla Questura. Al banco degli imputati siedono i funzionari della questura in servizio il 25 settembre e nei mesi successivi, tra loro ci sono Paolo Marino, dirigente dell'ufficio volanti, Luca Casoni, l'ispettore capo delle volanti, Marcello Bulgarelli, centralinista coordinatore degli interventi, e Marco Pirani ufficiale di Polizia giudiziaria in procura. Marino viene condannato a un anno di reclusione per omissione di atti d'ufficio, Bulgarelli, a dieci mesi per omissione e favoreggiamento mentre Pirani a otto, per non aver trasmesso il registro degli interventi di quella mattina. Luca Casoni, processato con il rito abbreviato, viene invece assolto.

Eccesso di uso ‘legittimo' di armi

Nel 2009 dopo trentadue udienze, il Tribunale di Ferrara ha condannato i quattro agenti a tre anni e sei mesi di reclusione con l’accusa di omicidio colposo. Ai poliziotti viene imputata la colpa di aver perpetrato un eccesso colposo nell'uso legittimo delle armi. La sentenza è stata confermata nel 2012, dalla Suprema Corte di Cassazione.

L'epilogo

Patrizia Moretti continua a battersi perché gravi abusi del genere ai danni di persone innocenti non avvengano più. “C'è un solo modo per evitare ad altre madri quello che ho dovuto soffrire io – ha detto nel giorno del compleanno di Federico – adottare in Italia una legge contro la tortura". Una petizione lanciata sul sito Avaaz.org propone l'approvazione di una legge contro la tortura. Il caso Aldrovandi è stato seguito anche da Amnesty International, l'organizzazione impegnata nella difesa dei diritti umani.

Ora che c'è una verità giudiziaria resta l'eredità storica di un atto inspiegabile e ingiusto che porta con sé una domanda, la stessa che si pose Lino Aldrovandi: "Al di là di ogni tecnicismo, cosa aveva fatto di male Federico, quella mattina?".

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