Il presidente della Bce, Mario Draghi, sfoglia la margherita dopo che gli ultimi dati relativi all’andamento dei prezzi al consumo in Europa hanno confermato la stima iniziale di una quindicina di giorni fa: in marzo i prezzi al consumo in Eurolandia sono saliti mediamente di uno striminzito 0,5% annuo, in ulteriore calo rispetto al +0,7% di febbraio e con ben otto paesi già in deflazione, ovvero Bulgaria (-2%), la Grecia (-1,5%), Cipro (-0,9%), Svezia e Portogallo (-0,4% entrambe), Spagna e Slovacchia (-0,2%) e Croazia (-0,1%). Se poi si guarda ai paesi dove i prezzi salgono ancora, si scopre che persino in Gran Bretagna (+1,6%), Malta e Austria (entrambi a +1,4%), Romania e Finlandia (+1,3% ciascuno), ossia i cinque paesi europei dove i prezzi aumentano più di un punto percentuale l’anno, la distanza rispetto al 2% annuo di incremento che la Bce ritiene desiderabile come obiettivo a medio termine per garantire una stabilità dei prezzi e al tempo stesso dare un minimo di sostegno all’asfittica ripresa del vecchio continente, resta considerevole.
Noterete che l’euro in questa statistica non sembra essere la causa principale, dato che la deflazione coinvolge sia paesi che l’euro ce l’hanno (come la Grecia, la Spagna o il Portogallo), sia chi l’euro non ce l’ha e magari neppure lo desidera, come la Svezia e persino la Gren Bretagna, con buona pace delle anime candide (o in malafede) che sono convinte che il peccato originale dell’Europa sia essersi dato una valuta comune ed aver così legato le mani ai singoli stati membri per quanto riguarda la gestione della politica monetaria, in particolare rinunciando alla possibilità, cui l’Italia ha sistematicamente fatto ricorso nei decenni passati, di procedere a colpi di svalutazioni competitive per rimediare a difetti strutturali (quali per il Bel Paese un costo del lavoro eccessivo, un fisco strangolante, un costo dell’energia eccessivo, una modesta qualità delle produzioni, una burocrazia soffocante, un credito insufficiente e troppe volte inefficiente o settori poco aperti alla concorrenza e aziende poco inclini all’innovazione).
Certo, essere rimasti a metà del guado, con un’unione solo monetaria che forse evolverà nei prossimi anni in un’unione bancaria, ma ancora non in un’unione politica, e aver accettato rapporti di concambio iniziali nati più per favorire la Germania e la sua riunificazione che non per tutelare i singoli aderenti all’euro è stato un errore che continua a pesare amplificando le difficoltà di tutto il Sud Europa e mantenendo intatte (anzi allargando) le differenze macroeconomiche tra i singoli paesi all’interno dell’area. Ma la risposta dovrà necessariamente essere politica, essendo proprio la mancanza di una politica europea alla base di molti altri problemi, dalla dipendenza da Mosca che rende il vecchio continente titubante (per non dire inerme) di fronte al crescente rischio di uno scontro militare tra Ucraina e Russia, sino all’incapacità di garantire a tutti i paesi l’accesso ad uno stesso costo a fattori competitivi quali il credito, l’energia o il lavoro.
Mario Draghi, a capo di una Bce finora ostaggio dei timori tedeschi circa eventuali future e sempre meno probabili “fiammate inflazionistiche”, non ha la bacchetta magica e non può risolvere problemi strutturali solo a colpi di politica monetaria, pure qualche freccia al suo arco dovrebbe avercela e potrebbe dispiegarla a breve: da una nuova Ltro che rifornisca nuovamente di liquidità a basso costo le banche europee, nel frattempo impegnate in un’Asset quality review in nome della quale le singole banche centrali nazionali, Banca d’Italia in testa, fanno pressioni perché ogni istituto si ricapitalizzi il più possibile (tanto che da giorni Mps perde quota in borsa sui timori che l’aumento di capitale possa slittare di alcune settimane e lievitare da 3 a 5 o 6 miliardi di euro, contro i 3 miliardi di capitalizzazione attuale, e non è detto che l’esempio non possa essere seguito da qualche altro istituto facendo salire dagli attuali 9 a 10-12 miliardi il conto totale), all’applicazione di tassi negativi sui depositi che gli istituti detengono presso la stessa Bce, così da “forzare” le banche a prestare denaro a imprese e famiglie e riavviare la ripresa, fino al lancio del già ipotizzato programma di riacquisto di bond da mille miliardi di euro.
Una misura quest’ultima di cui si discute da tempo ma che presenta qualche inconveniente: anzitutto per evitare l’accusa di voler favorire uno stato più che un altro ad essere acquistati sembra potrebbero essere non tanto titoli come Btp italiani o Bonos spagnoli (i quali peraltro hanno già registrato un ulteriore consistente calo dei rendimenti con tassi attorno al 3,10% sulla scadenza dei 10 anni e uno spread attorno all’1,60%-1,65% rispetto ai Bund tedeschi), quanto cartolarizzazioni, ossia obbligazioni che trasformano un credito (ad esempio legato a un portafoglio di mutui o di crediti al consumo) in un titolo circolante. Sennonché il mercato delle cartolarizzazioni, un tempo florido, in Europa è morto sostanzialmente dal 2008, ossia col fallimento di Lehman Brothers a sua volta generato dall’esplosione della bolla sui mutui “subprime” americani (che ancora continua a pesare sui bilanci di colossi come Bank of America, che giusto nel primo trimestre dell’anno ha accantonato qualcosa come 6 miliardi di dollari a fronte di oneri straordinari legati a cause che riguardano proprio mutui e crediti incagliati).
Se anche Draghi riuscisse a “rivitalizzare” questo mercato occorrerebbe poi prestare attenzione alla qualità di quanto si acquisterebbe, pena il rischio di perdere credibilità agli occhi degli investitori di tutto il mondo (cosa che né la Bce può permettersi né la Bundesbank sarebbe mai disponibile a tollerare), col che si otterrebbe di ridare credito a chi, in realtà, ne ha meno bisogno, ossia quegli istituti che sono riusciti a evitare (o a ripulire più rapidamente i bilanci) l’impatto di crediti “non performanti”.E questo potrebbe essere un problema per l’Italia, le cui banche avevano a fine febbraio secondo Abi oltre 162 miliardi di sofferenze lorde (1,6 miliardi in più di gennaio e 34,4 in più di un anno prima) a fronte di 1.850 miliardi di prestiti erogati, quest’ultima cifra ancora nettamente superiore al totale dei depositi (1.724 miliardi).
Il rapporto sofferenze lorde/impieghi, pari all’8,5% a livello medio (dal 6,5% di un anno prima), raggiunge il 14,4% per i piccoli operatori economici (12,1% a febbraio 2013, 7,1% a fine 2007), il 13,7% per le imprese (9,9% un anno prima, 3,6% a fine 2007) mentre è pari al 6,4% per le famiglie consumatrici (5,8% a febbraio 2013, 2,9% a fine 2007), il che non getta certo una b. Unico dato positivo, in attesa di vedere varate le riforme preannunciate da Renzi, considerando le sofferenze nette l’Abi nota una riduzione dai 79,2 miliardi di euro di gennaio ai 78,2 miliardi di febbraio, “a seguito di operazioni di cessione di prestiti in sofferenza”, che ha consentito di migliorare il rapporto sofferenze nette/impieghi totali dal 4,31% di gennaio al 4,27% (resta tuttavia distante il 3,23% a febbraio 2013 e ancor più lo 0,86% medi di prima dell’inizio della crisi).
Insomma: piccoli, timidi segnali di miglioramento si notano, ma rischiano di non bastare a risollevare un’economia che continua a patire per un carico eccessivo di disfunzioni strutturali. La via “giapponese” alla risoluzione graduale del problema richiederebbe almeno un decennio e purtroppo sembra che siamo incamminati tuttora lungo quella strada. La speranza è che Draghi riesca a “dare una scossa” e far accettare ai mercati l’ipotesi di una soluzione non traumatica ma neppure su tempi biblici. Perché se da un lato è vero che fare le cose in fretta il più delle volte significa solo farle male e con costi sociali elevati, anche bruciare un’intera generazione (o due) nell’attesa che lo scenario migliori non pare una valida alternativa.