L’effetto sorpresa è sicuramente una componente importante per quel che riguarda le performance di breve periodo dei mercati finanziari, così dopo molte sedute difficili a Piazza Affari è l’ora dell’euforia, col listino di Milano che nella seduta di giovedì 27 novembre 2011 ha guadagnato attorno ai 5 punti percentuali dopo che il vertice della sera precedente a Bruxelles tra i capi di governo Ue (ossia sostanzialmente tra Germania e Francia) ha partorito un accordo che potrebbe effettivamente costituire una buona premessa per risolvere la crisi del debito greco e rafforzare il sistema creditizio del vecchio continente.
Un accordo che ad alcuni sembra in verità avere leggermente penalizzato più le banche italiane che non quelle spagnole, francesi o tedesche, in proporzione sicuramente più esposte di quelle italiane alla Grecia piuttosto che a Portogallo o Irlanda. Il fatto è che mentre l’Irlanda sembra già da qualche tempo sulla strada di un recupero con le proprie forze e mentre anche dell’eventuale svalutazione al 20% dei titoli di stato di Lisbona non si accenna più in alcun comunicato ufficiale, sono la Spagna ma soprattutto l’Italia che continuano a ricevere ammonimenti affinché rispettino (anzi, nel caso del Belpaese dettaglino così da consentire un più preciso esame da parte della Commissione Ue) gli impegni presi.
Ma tant’è, su 106 miliardi di euro che (per alcuni fin troppo ottimisticamente) dovrebbero servire alle 90 maggiori banche europee per rafforzare i propri coefficienti patrimoniali portando il Core Tier 1 (un indice che sintetizza il capitale migliore, ossia più certamente esigibile anche in situazioni di crisi) ponderato per il rischio al 9% entro la fine del prossimo anno (in netto anticipo rispetto alle indicazioni degli accordi di Basilea III) circa 14,77 miliardi dovranno essere raccolti dalle cinque principali banche italiane (Intesa Sanpaolo, UniCredit, Montepaschi, Banco Popolare e Ubi Banca).
Quello che per ora nessuno dice per ora sono quanti soldi dovranno mettere gli azionisti privati delle singole banche, il che ha dato vita ad un balletto di numeri “ufficiosi” simile a quello visto altre volte (un broker internazionale ha indicato in circa 8,5 miliardi il capital deficit di UniCredit, attorno a 2 miliardi quelli di Intesa Sanpaolo, Mps e Banco Popolare e in circa 600 milioni quello di Ubi Banca), tanto che Intesa Sanpaolo ha poi precisato in una nota che dai test condotti nelle scorse settimane dall’Eba (European Banking Authority) sulla base dei dati al 30 giugno scorso non sono emerse necessità di ulteriori aumenti (il Core Tier 1 risulterebbe infatti in ogni caso superiore alla soglia del 9% richiesta), mentre UniCredit ha parlato di 7,4 miliardi che però scenderebbero a 4,4 miliardi circa tenendo conto dei “cashes” per il computo del Core Tier 1 e per il Montepaschi l’indicazione “preliminare” sarebbe pari a poco più di 3 miliardi senza però tener conto di alcune operazioni recenti “che consentirebbero di annullare l’esigenza di mezzi freschi legata al rischio sovrano e di ridurre la necessità di mezzi freschi”, tanto più che per determinare i futuri aumenti di capitale l’Eba (cui è stato demandato il coordinamento delle ricapitalizzazioni) terrà conto dei risultati al 30 settembre.
Dunque, facendo quattro conti della serva, sembrerebbe che il conto finale possa essere di soli 9 miliardi di euro, comunque una cifra non indifferente per le fondazioni bancarie italiane che controllano il capitale delle nostre maggiori banche e che da un paio d’anni continuano a vedersi chiedere nuovi capitali senza o con pochi dividendi in cambio (flusso di dividendi che probabilmente non potrà tornare ai livelli pre-crisi ancora per diversi anni).
L’unica alternativa a questo punto è di dismettere alcune attività “a rischio” (a parte la vendita di titoli di stato, che nei portafogli delle cinque maggiori banche italiane pesano almeno 160 miliardi di euro ma a prezzi di mercato ne valgono circa 15 in meno e che però potrebbero rivalutarsi in caso di ripresa dei mercati), oppure di accettare di lasciarsi diluire collocando sul mercato buona parte degli aumenti o trovando nuovi soci pronti a entrare. In Francia (dove le banche sono molto più esposte alla crisi del debito sovrano e per questo oggi segnano rialzi a doppia cifra decimale) Nicolas Sarkozy sembra tentato da quest’ultima ipotesi, tanto che l’Eliseo ha riferito di una telefonata intercorsa tra Sarkozy e il collega cinese Hu Jintao, nel corso della quale i due leader “hanno convenuto di collaborare strettamente per assicurarsi che il G20 possa dare un contributo decisivo alla crescita e alla stabilità globale”. In parole povere la Cina potrebbe essere coinvolta in qualche misura nel piano elaborato ieri a Bruxelles e rispetto al quale in verità non tutti i dubbi sono ancora stati chiariti.
Dubbi che riguardano in particolare quanti soldi metterà l’Fmi (che con la Ue rifinanzierà per 100 miliardi di euro complessivi il piano di aiuti alla Grecia), quante banche accetteranno “spontaneamente” (perché obbligandole si sarebbe dato di fatto corso ad un default, con prevedibili immediate ulteriori riduzioni dei rating sovrani e nuova corsa all’insù di spread e Cds) di svalutare non del 21% come previsto in luglio ma del 50% i titoli di stato di Atene (allineandoli maggiormente ai valori di mercato attuali), che il prossimo anno andranno scambiati con nuove emissioni a lungo termine, quanto dovrà impegnarsi l’Efsf (i cui 260 miliardi di risorse residue verranno portate a mille miliardi emettendo nuovi eurobond e creando “special purpose veichles”, ossia fondi ad hoc per ricapitalizzare il fondo salva stati europeo) e chi alla fin fine metterà mano al portafoglio, acquistando tanto i titoli azionari emessi dalle banche quanto gli eurobond dell’Efsf. La Bce dal canto suo ha fatto sapere che continuerà a fornire liquidità alle banche e ad acquistare i titoli di stato dei singoli paesi membri della Ue in difficoltà, il resto dovranno farlo gli investitori privati europei o mondiali, sempre che la fiducia non venga nuovamente meno.