Il 2014 porterà la tanto sospirata ripresa per l'area dell'euro o non ne determinerà piuttosto il collasso? Parlandone in questi giorni con alcuni economisti come Roberto Perotti o Carlo Alberto Carnevale Maffè il quadro non sembra troppo confortante per l’Eurozona e per l’Italia in particolare. Senza riforme, è la sostanza del ragionamento, non ci sarà crescita perché non si potranno tagliare le tasse e ridare un incentivo alle imprese per investire, riassorbendo disoccupazione e facendo aumentare nuovamente la ricchezza prodotta nel Bel Paese (e magari, aggiungo io, riavviando un volano che dalla crescita potrebbe consentire di produrre maggiori entrate fiscali con le quali tenere in ordine i conti pubblici senza mettere continuamente le mani nelle tasche degli italiani con nuovi balzelli). Ma qualsiasi sia il governo, secondo gli esperti la probabilità di vedere varate riforme resta minima, perché le riforme comporterebbero, inevitabilmente, una riqualificazione e riduzione della spesa pubblica, quanto meno di quella “non sana”, ossia legata più al mantenimento di clientele che alla reale necessità dell’economia nazionale.
C’è di più: negli ultimi mesi il “sentiment” nei confronti dell’Europa (oltre che dell'euro) è cambiato e, anche sotto la spinta di movimenti populisti che sperano di guadagnare terreno nelle elezioni europee del maggio 2014, si è nuovamente fatto critico sia nei confronti dell’euro (che “sic stantibus” ormai sembra ad alcuni indifendibile, indipendentemente dalle politiche monetarie della Bce e dall’attribuzione di colpa alla classe dirigente tedesca, italiana o europea in genere) sia della stessa costruzione sovranazionale del vecchio continente, sempre più dirigista e burocratica come conseguenza di un “asse” tra due delle nazioni più burocratizzate del mondo, la Francia e la Germania. Nazioni, per inciso, che godono di indubbi vantaggi dall’attuale gestione “dura e pura” del processo di doppio deleveraging del debito pubblico e privato, un processo la cui durezza è invece la causa prima della crisi in cui sono caduti i “PIIGS” europei e che renderà difficile una ripresa che possa risultare poco più che statistica.
Come dire che nel 2014 o la và o la spacca: se l’Europa, magari sotto la pressione della Francia (che mostra segnali di sempre maggiore affaticamento) riuscirà a ritrovare il senso della sua missione storica e a superare l’impostazione “teutonica”, bilanciando l’esigenza sacrosanta di un risanamento dei conti pubblici con quelli di un disboscamento dell’eccesso burocratico del vecchio continente e assieme a migliorare le prospettive di crescita per aziende (e banche) e famiglie europee, la Ue potrà tornare ad essere un traguardo importante, un’unione politica oltre che economica e bancaria bilanciata ed in grado di recitare un ruolo di crescente importanza nel panorama geopolitico ed economico mondiale. Non si potrà sovvertire alcune regole basilari dell’economia e non ci sarà da aspettarsi che nuove fabbriche tornino ad aprire come i funghi, magicamente, in tutto il Sud Europa, Italia compresa, ma ci sarà spazio per investire in nuovi settori, dal lusso ai prodotti tipici, dall’alta tecnologia alla cultura.
Se invece così non dovesse essere, il venir meno, sia pure gradualmente, della “droga monetaria” finora iniettata nei mercati finanziari mondiali in grande quantità dalla Federal Resereve e dalla Bank of Japan, assieme ad una ulteriore inazione politica europea porterà ad un crollo che non sarà clamoroso e immediato, ma più probabilmente si tradurrà in una lunga serie di obiettivi mancati, ulteriori crescite di disuguaglianze, ulteriore emarginazione di aziende, settori e interi paesi persino a fronte di un’economia mondiale che pare destinata a crescere e ulteriormente rafforzarsi nel suo complesso, a vantaggio però di altri soggetti (in particolare ma non solo delle economie emergenti dell’Asia).
Cosa resterebbe da fare in quel caso? Come più volte ho detto, la cosa migliore sarebbe per chi ne abbia la possibilità e il coraggio seguire l’esempio di quegli oltre 100 mila italiani che già nel 2012 hanno preso residenza all’estero. Sarebbe una “fuga di cervelli” e di braccia come già abbiamo visto in altri periodi storici e certamente sarebbe una soluzione estrema e dolorosa. Ma sarebbe sempre meglio della ormai stanca retorica degli “europeisti” interessati solo a difendere le proprie corporazioni nel più totale dispregio degli interessi collettivi.