I tre ergastoli comminati nel novembre scorso dalla corte distrettuale dell’Aia non verranno mai scontati: madre Russia tiene bene al riparo i suoi funzionari e i suoi agenti. E di imputati non ce ne saranno altri, in questa vicenda. Perché i sospettati sono troppo in alto. Difficile incastrarli e impossibile punirli: se non altro perché godono dell’immunità diplomatica. A partire dal presidente della Federazione Russa. Per questo, almeno per ora, l’inchiesta si ferma qui.
Le responsabilità del comandante in capo
Eppure gli investigatori del team internazionale (Jit), nel riconoscere la loro impotenza, hanno aggiunto il tassello che completa questo orribile mosaico. Dichiarando che, secondo “forti indicazioni”, la batteria missilistica responsabile della strage nella quale persero la vita 298 persone fu fornita ai miliziani controllati dalla Russia su ordine diretto di Vladimir Putin.
Il volo MH17 della Malaysia Airlines fu abbattuto da un missile Buk della 53esima brigata antiaerea russa lanciato da una zona controllata dai separatisti, conferma il rapporto del Jit. Nel 2014 Mosca aveva il pieno controllo sulle milizie filo-russe del Donbass, e di ogni decisione era responsabile il comandante in capo, ovvero il presidente — conclude il team investigativo.
Addirittura, i generali e i funzionari russi rinviarono una fornitura di armamenti ai miliziani perché Putin, nel giugno di quell’anno, era in Francia per la commemorazione del D-Day, lo sbarco in Normandia: “Scusate il ritardo ma l’unica persona che può prendere la decisione è a un summit in Francia”, dice un advisor del Cremlino ai suoi interlocutori in una telefonata intercettata e fatta ascoltare dal Jit in una conferenza stampa nella capitale olandese.
Altro che guerra civile
Diventa così ancora più chiaro che fin da allora sul territorio ucraino era in corso non una guerra civile ma “un conflitto armato internazionale”, per usare le stesse parole dei giudici dell’Aia. Come dire che l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è iniziata in realtà quasi nove anni fa, non il 24 febbraio 2022.
Mosca non ha mai voluto collaborare alle indagini internazionali sulla strage dell’MH17, ha definito “scandaloso” e politicamente motivato il verdetto. Ma per spiegare quanto accaduto ha solo proposto teorie del complotto fatte in casa. “Come al solito, siamo solo un capro espiatorio”, è sempre stata la posizione, rimbalzata da dichiarazioni governative, tweet delle ambasciate russe nel mondo e programmi della tivù di Stato.
Chi scrive ne ricorda in particolare uno, di quei programmi. Fu trasmesso in occasione del quinto anniversario della strage e aveva un titolo poco giornalistico ma significativo: “Non sappiamo ancora chi è stato”. Invece già allora la verità si sapeva eccome. La si sapeva a Mosca e nel resto del mondo. Di materiale accusatorio il team investigativo internazionale ne aveva messo insieme in abbondanza. In parte, lo aveva reso pubblico. Oggi lo mette in fila nel suo rapporto conclusivo. Aggiungendo particolari inediti.
Tutti gli uomini del presidente
Tra gli elementi di prova, anche una telefonata di quello che all’epoca dei fatti era il più influente consigliere di Vladimir Putin: Vladislav Surkov, l’eminenza grigia del Cremlino, l’inventore della “democrazia sovranista”, l’ideologo post-moderno che ha dato al putinismo le forme che hanno sedotto le destre alternative d’Europa e d’America.
Surkov, sei giorni prima che il missile assassino interrompesse il volo da Amsterdam a Kuala Lumpur uccidendo tutti i passeggeri e componenti dell’equipaggio a bordo, parlava con il premier dell’autoproclamata repubblica di Donetsk Alexander Borodai dell’invio di batterie missilistiche anti-aeree di Mosca a sostegno delle milizie impegnate contro l’esercito regolare di Kyiv.
Nel colloquio intercettato, i due si danno del tu. Surkov — che è stato a lungo il “proconsole” di Putin per il Donbass — si riferisce a Borodai utilizzando il diminutivo confidenziale “Sacha”. La telefonata dimostra che la fornitura dei missili con i quali è stato abbattuto l’aereo di linea fu coordinata ai più alti livelli dell’amministrazione russa. Certamente, ogni azione di Surkov — visto il suo ruolo e i sui rapporti con Putin — aveva l’approvazione del presidente.
La richiesta di unità anti-aeree “con personale già addestrato perché non c’è tempo per il training” e di altri sofisticati armamenti da parte dei separatisti si era fatta pressante da oltre un mese, prima dell’abbattimento del volo Mh17. Emerge in particolare dalle intercettazioni delle conversazioni tra Igor “Strelkov” Girkin, uno dei condannati, allora “ministro della Difesa” di Donetsk, e Sergey Aksyonov, premier della Crimea che la Russia si era appena annessa.
“Strelkov” e il proconsole della Crimea, anelli della catena
In una telefonata dell’8 giugno 2014, Aksyonov rassicura Girkin dicendo che la decisione a favore del supporto richiesto “è già stata presa”, e che è stato creato un “centro di coordinamento” ad hoc.
Per gli investigatori e per i giudici olandesi che hanno accolto l’impianto accusatorio, Girkin e i suoi interlocutori “formavano una catena che univa l’autoproclamata repubblica popolare di Donetsk alla Federazione russa”. Attraverso questa catena, che li collegava direttamente al ministro della difesa Sergei Shoigu e al suo unico superiore, “essi hanno potuto far arrivare equipaggiamento militare pesante sul campo di battaglia dell’Ucraina orientale”.
Poco importa, a questo punto, se a premere il bottone sia stato un miliziano separatista o un militare russo. La seconda ipotesi era confortata dalla richiesta di “personale già addestrato” e dalla convinzione degli investigatori che un battaglione della 53esima antiaerea si trovasse al tempo nel Donbass, in territorio ucraino. Non è stata confermata. Ma il verdetto di tre mesi fa ha stabilito che ci fu una responsabilità anche materiale dei militari di Mosca.
Benvenuti nel mondo di Orwell
Il modo con cui il Paese di Vladimir Putin ha sempre negato ogni colpa richiama il concetto di doublethink, il bipensiero orwelliano che sfida conflitti, dissonanze e contraddizioni.
La strategia difensiva della Russia è stata rocambolesca e non plausibile. Ha accusato Kiev, poi la Cia. Ha sostenuto di non utilizzare più missili Buk dagli anni ’90, ma quei missili sono stati fotografati e filmati in parate militari nelle basi russe anche alla vigilia della tragedia. E così via.
D’altra parte, ammettere di avere una colpa significava ammettere di aver aiutato direttamente, fin dal 2014, i ribelli del Donbass sul teatro di guerra, e quindi smantellare tutto l’apparato politico e propagandistico che sottendeva all’annessione della Crimea e alle avventure ucraine di Putin. Fino al 24 febbraio 2022.
I fatti di nove anni fa e quelli di oggi sono inestricabilmente collegati. Chiunque sostenga, a questo punto, che Mosca non sia direttamente implicata nell’abbattimento del volo MH17, vive nel mondo di Orwell. Così come chi ritiene che il leader del Cremlino sia stato solo recentemente “costretto” a un conflitto che non avrebbe voluto. No, la guerra era voluta e c’era già. Bastava anche solo seguire i progressi delle indagini del Jit, per rendersene pienamente conto.
Resta da chiedersi se una presa di posizione più decisa da parte della comunità internazionale nel 2014 o subito dopo avrebbe potuto prevenire la spietata aggressione degli ultimi dodici mesi e il rischio di una terza guerra mondiale. Fatto sta che si preferì guardare altrove e non esagerare nella durezza delle risposte politiche. Alla realtà si preferì la finzione, al vero il falso. Come nel mondo di Orwell.
Giornalista e broadcaster. Corrispondente da Mosca a mezzo servizio (L'Espresso, Lettera 43 e altri - prima di Fanpage). Quindici anni tra Londra e New York con Bloomberg News e Bloomberg Tv, che mi inviano a una serie infinita di G8, Consigli europei e Opec meeting, e mi fanno dirigere il servizio italiano. Da giovane studio la politica internazionale, poi mi occupo di mostri e della peggio nera per tivù e quotidiani locali toscani, mi auto-invio nella Bosnia in guerra e durante un periodo faccio un po' di tutto per l'Ansa di Firenze. Grande chitarrista jazz incompreso.